Girls – Stagione 1


Girls - Stagione 1Girls. Ragazze. Sempre più nella televisione americana il titolo porta con sé molto più di ciò che sembra, nascondendo spesso il succo, l’osso di seppia, la sintesi estrema. Ovviamente in questo caso si tratta di personaggi a loro modo unici, ma la nuova serie HBO non mette limite all’ambizione mirando a circoscrivere, raccontare, mostrare una generazione intera.

Sia per quantità di show realizzati, sia per rilevanza individuale, dire comedy in America significa quasi automaticamente fare riferimento alla tv generalista. ABC, CBS, NBC e in parte FOX (soprattutto a seguito dell’affermazione, per molti versi definitiva e quasi incontrovertibile, del via cavo nel campo dei drama) hanno scelto il più divertente dei generi televisivi come punta di diamante dei loro palinsesti. La pay tv, salvo alcune importanti eccezioni (Sex and The City, Louie, Californication), per molto tempo è stata a guardare, ma è evidente che qualcosa nell’aria stia cambiando e che le maggiori risorse derivanti dagli abbonamenti potrebbero cominciare a farsi sentire anche in questo settore. Se l’HBO solo in questa stagione ha prodotto tre comedy come Enlightened, Veep e Girls, tutte rinnovate in maniera quasi immediata, qualcosa allora sta davvero cambiando.

Girls - Stagione 1Del trio, Girls era forse la più attesa, quella verso la quale c’erano più aspettative, ma anche la più rischiosa, per via di un format tutto da definire, meno standardizzato e più diseguale. I nomi in ballo però sono di quelli capaci di creare hype senza troppi sforzi e, per motivi diversi, costituiscono fonte di aspettative non indifferenti. Judd Apatow è il pezzo grosso, colui grazie al quale tutto il progetto è stato possibile. Non ha bisogno di presentazioni, essendo uno dei massimi – con i fratelli Farrelly – autori (e produttori) della commedia hollywoodiana contemporanea, oltre che il creatore di una delle comedy più innovative della storia della televisione americana, Freeks and Geeks, dalla quale sono nati attori come Seth Rogen e James Franco.

Nonostante il grande padre artistico, la maggior parte dei meriti va a Lena Dunham, che di Girls è creatrice, regista di alcuni episodi, sceneggiatrice di quasi tutti e interprete principale. Astro nascente del panorama indipendente statunitense, Dunham, newyorkese classe 1986, si mette in luce nel 2009 con il suo primo lungometraggio Creative Nonfiction, compiendo però il vero salto di qualità due anni dopo, all’età di 24 anni, con Tiny Furniture, film semi-autobiografico vincitore di diversi premi nel circuito indipendente americano.

Girls - Stagione 1Con Girls si mette in gioco come non mai, ideando un prodotto in cui il suo riflesso è presente in ogni fotogramma, sia nell’accezione maggiormente iconica del termine – il suo personaggio è abbondantemente il più approfondito e quello presente per più minuti davanti all’obiettivo – sia per quanto concerne l’emanazione di un pensiero complesso, di un’idea di mondo che non potendo essere rappresentazione – quando non è inquadrata – diventa rappresentanza, weltanshauung di cui gli altri personaggi si fanno vicari privilegiati.

Il plot ruota sostanzialmente attorno a quattro personaggi principali, quattro ragazze: Hannah (Lena Dunham), aspirante scrittrice che cela le proprie insicurezze dietro una personalità esuberante e profondamente egocentrica; Marnie (Allison Williams), ancora inconsapevole della propria femminilità, inibita da un’educazione ordinaria e castrante; Jessa (Jemina Kirke), il suo esatto opposto: libertina e disinibita, ma molto più fragile di quello che tende a dare a vedere; e Shoshanna (Zosia Mamet – sì, la figlia di David Mamet!), perennemente alla rincorsa dei propri modelli femminili, un frutto ancora lontano dal maturare alle prese con la realtà a lei circostante, che conosce solo parzialmente. Accanto a loro si aggiungono alcuni personaggi secondari tra i quali il più presente è Adam (Adam Driver), ragazzo con il quale Hannah intrattiene una relazione travagliata e piena di disavventure.

Girls - Stagione 1Girls non è una serie particolarmente dinamica, non ci sono capovolgimenti narrativi o trame fitte da seguire e da inseguire. L’azione lascia in più di qualche occasione il posto alla riflessione, all’analisi di una condizione generazionale, approfondita attraverso l’esplorazione delle personalità delle protagoniste. Girls è forse la prima serie tv che si pone apertamente in dialogo con un movimento cinematografico, quello indie – o indiewood, se si vuole usare la terminologia di Geoff King, tra i massimi studiosi del fenomeno; grazie alle opere di Wes Anderson, Noah Baumbach, Sofia Coppola, Paul Thomas Anderson e Todd Solondz, ha proposto un nuovo modo di fare cinema, per certi versi basato sulle piccole cose, sull’analisi di una quotidianità medio-borghese portatrice di una malinconia alla quale è difficile sfuggire. Un parco di autori giovane, al quale si aggiunge Lena Dunham, che prima di condividere un’estetica si richiamano ad una sensibilità comune, che trova nella musica indipendente statunitense, nella letteratura postmoderna e nel cinema europeo i suoi nuclei d’aggregazione principali. Girls racconta la generazione tra i venti e i trent’anni, con uno sguardo interno e forse per questo un po’ autoindulgente, senza però essere mai autocelebrativo. La serie si pone come l’altra faccia della medaglia di Sex and The City, quella più amara, carica di paure e incertezze verso il futuro e verso il passaggio all’età adulta. Un drama mascherato da comedy, che ha nell’umorismo nero, politicamente scorretto e realisticamente sboccato una delle sue armi vincenti.

Voto: 8

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Informazioni su Attilio Palmieri

Di nascita (e fede) partenopea, si diploma nel 2007 con una tesina su Ecce Bombo e l'incomunicabilità, senza però alcun riferimento ad Alvaro Rissa. Alla fine dello stesso anno, sull'onda di una fervida passione per il cinema e una cronica cinefilia, si trasferisce a Torino per studiare al DAMS. La New Hollywood prima e la serialità americana poi caratterizzano la laurea triennale e magistrale. Attualmente dottorando all'Università di Bologna, cerca di far diventare un lavoro la sua dipendenza incurabile dalle serie televisive, soprattutto americane e britanniche. Pensa che, oggetti mediali a parte, il tè, il whisky e il Napoli siano le "cose per cui vale la pena vivere".

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