C’è sempre uno strano limite tra le aspettative e la cruda realtà, dove il più delle volte è sempre la seconda a uscirne sconfitta. The Bastard Executioner è l’ennesima riprova di questa formula che, per le serie tv (molto più che nel cinema), è una questione con cui fare davvero i conti e non tanto in termini di ascolti o successo, ma perché incide davvero sul giudizio dello spettatore.
Prima ancora che sugli episodi in oggetto, forse è bene spendere delle parole su quanto appena accennato, tentando di essere sia cauti che profondamente oggettivi. Il primo punto non può che essere quindi il peso che ha il nome di Kurt Sutter e con lui l’inevitabile sguardo sulla fatica da poco conclusa, cioè Sons of Anarchy, in quanto – nel bene o nel male – il paragone nasce giustamente ed inevitabilmente. Forse, dopo la visione del lungo pilot andato in onda, molti spettatori non ci avrebbero pensato due volte ad abbandonare la serie, e magari in molti lo avranno fatto; chi è rimasto lo fa anche (ma non solo, e questo va sottolineato) per amore di Sutter e perché sa cosa è riuscito a fare negli ultimi sette anni, mettendo in piedi una serie che all’inizio, sulla carta, avrà attratto poche persone.
In questo senso le aspettative funzionano in modo positivo, perché mischiandosi con la fiducia si trasformano nella volontà di andare avanti, evitando semplicemente di essere frettolosi. Dall’altro lato, però, lo stesso orizzonte di attesa non viene soddisfatto, soprattutto pensando che questa dovrebbe essere la prova della maturità stilistica e narrativa dell’autore.
È questo il punto cruciale nonché il peso che sente lo spettatore di The Bastard Executioner. “Effigy/Ddelw” e “A Hunger/Newy” compiono sicuramente dei passi avanti rispetto ai novanta minuti di qualche settimana fa, ma allo stesso tempo sottolineano le impressioni che ne erano scaturite. L’avanzamento c’è sicuramente a proposito della storia, perché gli eventi si stanno intrecciando sempre di più e la trama si sta infittendo – e in questo Sutter è una garanzia. Il terzo episodio, rispetto al successivo, introduce meno novità e tenta di stabilizzare le cose, concentrandosi sul protagonista e sul tema centrale della doppia identità Wilkin Brattle/Gawain Maddox, cercando di mettere maggiormente in risalto il paradosso del repentino scambio di esistenza. La scena iniziale con l’inizio dell’educazione come boia, impartitagli dalla strega Annora, è estremamente significativa e potrebbe essere anche una parte interessante da sviluppare; una zona del racconto che si lega inoltre al passato di Wilkin, lasciato volutamente misterioso.
Anche qui viene aggiunto qualche dettaglio attraverso le visioni del protagonista, che rivela così alcuni scorci della sua infanzia e, nello specifico, la conoscenza di quello stesso Dark Mute che accompagna oggi Annora e che si è macchiato della morte di Petra – interpretato da Kurt Sutter stesso. Ogni dettaglio quindi sembra legarsi con l’altro, facendo avanzare ipotesi più o meno fondate sulla vera identità dei due stregoni, fino a far sospettare che magari quello sguardo su Wilkin bambino possa essere molto di più che quello di un semplice educatore. Ma al di là dell’importanza strategica di questo o un altro dettaglio, o l’importanza che questo possa acquisire nella storia, è la resa a non avere nessuna efficacia e questa è una novità per Sutter, che ha sempre saputo lavorare sull’attesa e sulla costruzione del climax, così che il colpo di scena ne fosse solo la summa, non il banale punto di arrivo. Complice è anche la grossolanità della scrittura, volutamente evocativa ma senza alcuno spessore; colpa che ha anche tutto il filone esoterico/religioso che ad oggi rappresenta solo il dettaglio visivo e disturbante da inserire all’interno della storia.
In proporzione a quanto detto, funziona meglio per molti aspetti il quarto episodio, pur conservando i difetti appena citati. “A Hunger/Newy” si fa volutamente veicolo di nuovi frammenti ma soprattutto di nuovi intrighi, mettendo al centro della scacchiera e dello schermo il personaggio del ciambellano Milus Corbett, interpretato da una vecchia conoscenza della serialità: Stephen Moyer. Ora: credo che nessuno, reduce da True Blood, avrebbe mai neanche lontanamente scommesso sull’attore, eppure, a voler mettere da parte ogni tipo di giudizio (o pre-giudizio), è la pedina che continua a muoversi meglio tra tutte. In sostanza l’episodio si gioca totalmente intorno a lui e alla sua astuzia, sui suoi giochi di potere e sulla capacità di piegare le cose a suo totale vantaggio. Il legame a doppio filo che stanno costruendo lui e Wilkin circa la condivisione dello stesso segreto, mantenuto nel silenzio perché utile ad entrambi, eleva il piano iniziale del semplice scambio d’identità, facendo anche sperare che ogni singolo pezzo si muova per diventare un unico gigantesco ingranaggio. Allo stesso modo l’uso dell’espediente di un vecchio conoscente del vero executioner che ne potrebbe mettere a repentaglio la copertura diventa una mossa interessante grazie all’opportunismo di Milus e ancor più sottile con la prigionia degli altri suoi compagni.
In sostanza, quello che emerge da queste ultime puntate è che di carne al fuoco ce n’è tantissima, che la potenzialità di evoluzione narrativa è ai massimi livelli, ma è inficiata moltissimo dalle scelte stilistiche di regia e fotografia in primis, e poi dalla ricercata frammentarietà della storia. La traversata della candida baronessa che va in visita al re, giusto per rivelare che sia uno smidollato ragazzino, viziato e senza regole, non aggiunge nulla al personaggio di Lady Love, che è invece maggiormente funzionale rimanendo a corte, dove si fa dispensatrice della conoscenza della sua terra nonché saggia sovrana. Qui il problema è la scontentezza di questa descrizione, tanto più perché trapela senza mezzi termini quanto dovrebbe risultare rivoluzionaria ed eroica. Il confine che dicevamo all’inizio tra aspettative e cruda realtà, allora, non è soltanto esterno alla serie, ma entra in gioco anche nelle sue maglie più interne, nella scrittura stessa dei personaggi, che vorrebbero essere o evocare qualcosa di più e invece lo gridano e basta – oltre alla baronessa, altro esempio lampante è il personaggio di Katey Sagal, Annora.
Lo stesso discorso vale sia per la violenza dispensata più che generosamente, sia per le visioni che tornano a cadenza fin troppo regolare. Questi sono i due punti deboli più evidenti di The Bastard Executioner: la prima perché molte volte non ha davvero ragione di avere luogo, diventando quindi un bagno di sangue inutile e a tratti accompagnato da un senso “di sfida” nei confronti del pubblico, come a voler vedere fino a che punto siamo disposti ad accettarlo. C’è un’indifferenza tale verso la violenza praticata nella serie che alla fine dei conti risulta stucchevole, neanche splatter o disturbante, ma solo grezza, manierista, pacchiana, totalmente irragionevole e brutta. Discorso simile (se non peggiore) vale per le visioni, rese male e persino più inutili della violenza gratuita.
Insomma, moltissimi sono gli aspetti che non funzionano nella serie, così come ce ne sono altri che iniziano ad ingranare. Sta a chi siede dall’altra parte scegliere e decidere a quale corrente di pensiero affidarsi: se riporre la propria fiducia e vedere ciò che non va come aree di miglioramento o se mettere da parte tutto, con la convinzione che i difetti siano difetti e quindi davvero troppi perché trovino la giusta via in futuro. Da parte mia, tanto vale stare nel mezzo e continuare ad aspettare.
Voto 1×03: 5
Voto 1×04: 6
Sinceramente grossi miglioramenti rispetto al pilot non ne ho trovati.
La pecca piu’ grande e’ sempre e comunque la *previdibilita’* .
Io sono uno di quelli che continua a seguirla solo perche’ avendola partorita Sutter nel colpo di coda ci spero e perche’ essendo per me lui geniale un po’ di fiducia per il proseguo se la merita.