BoJack Horseman – Back in the Nineties… 5


BoJack Horseman - Back in the Nineties...Horsin’ Around era una delle sit-com più popolari degli anni ’90, uno di quegli show di facile presa (e spesso decisamente stucchevoli) che il pubblico americano guardava per non pensare ai problemi di tutti i giorni. Dopotutto, “No one watches the show to feel feelings” diceva il creatore Herb Kazzaz, “Life is depressing enough already”.

BoJack Horseman, il cavallo antropomorfo protagonista della serie, ha ora più di cinquant’anni: le sue giornate si consumano tra alcol a colazione e rewatch delle vecchie puntate di Horsin’ Around, unico vero successo nella sua vita. Bojack – quasi dimenticato dal pubblico, ormai – è cinico, scontroso e sull’orlo della depressione; non sembra che ci sia molto da fare per lui, ed è proprio in questo momento che si inserisce la narrazione della serie di Raphael Bob-Waksberg.
Una scelta del genere non può che essere una vera e propria dichiarazione di intenti: fin dal concept si intuisce lo spirito amaro e disilluso che caratterizza la storia, posizionata in una Hollywood che si muove tra eccessi e cancellazioni, tra successi immeritati e raccomandazioni. Si tratta, insomma, di un mondo che sta lentamente collassando su se stesso: perché non costruirci sopra una comedy animata?

BoJack Horseman - Back in the Nineties...Ma andiamo con ordine: BoJack Horseman non è una comedy, o perlomeno non lo è nel senso più tradizionale del termine. La serie comincia su binari sicuri e già testati, con personaggi abbastanza stereotipati e situazioni a dir poco abusate, ma non ci vuole molto perché gli autori scelgano di raccontare qualcosa di più radicato, di più coraggioso. È come se la prima metà della stagione d’esordio avesse la funzione di gettare i semi per il futuro lasciandoli a germogliare, con degli episodi che solo visti nel quadro d’insieme restituiscono il loro valore effettivo: non a caso, infatti, la produzione e la distribuzione sono state affidate a Netflix, come a suggerire di aspettare il primo season finale prima di giudicare il valore dello show – mossa ignorata da alcuni critici d’oltreoceano, che tuttavia hanno poi ammesso il loro errore.
Quella che è una narrazione inizialmente canonica e piuttosto semplice, insomma, nasconde molto di più: quando l’anima drammatica di BoJack Horseman comincia davvero ad emergere, la serie e i suoi protagonisti si trasformano, passando da una comedy con elementi drama all’esatto opposto, che trova la sua forza nell’attenta e misurata pianificazione dei primi episodi. In poche parole, è difficile (per non dire quasi impossibile) scavare a fondo nei propri personaggi prima di presentarne le caratteristiche, il modo di vivere, l’ambiente in cui vivono; soprattutto se la storia di cui si vuole parlare riguarda il tentativo di un “uomo” di coprire il vuoto interiore che ha continuato ad allargarsi negli ultimi cinquant’anni.

BoJack Horseman - Back in the Nineties...Quello che è il problema principale di BoJack (Will Arnett), infatti, è la depressione, o meglio, l’apparentemente impossibile ricerca di una qualsiasi forma di felicità: la serie ruota intorno a questo perno esistenziale, su cui ogni momento chiave della narrazione fa leva, con una profondità ed una minuziosità a dir poco disarmanti. Il risveglio del protagonista avviene solo a cinquant’anni, dopo aver speso gran parte della sua vita a recitare in una sit-com scadente per poi crogiolarsi sui frutti non meritati del proprio successo: è forse troppo tardi? C’è ancora tempo per rimediare, sempre ammesso che sia mai possibile?
Nelle due stagioni attualmente andate in onda non esiste una risposta: il pregio della serie sta appunto nel muoversi con onestà e rigore, senza cercare soluzioni facili né piacevoli per lo spettatore. BoJack tenta costantemente di saltare un ostacolo che si rivela essere ben più alto di lui, complice una serie di eventi che non facilitano il processo, tra cui un’educazione difettosa e la ricerca del proprio modello in un idolo corrotto. Quello che ne consegue è un percorso tutto in salita, e non è detto che il modo di rispondere del protagonista sia abbastanza: emblematico, in questo senso, il quadro nello studio a casa di BoJack, in cui lui osserva, immobile a bordo piscina, se stesso annegare (il riferimento ad un’altra celebre serie non può essere casuale).

BoJack Horseman - Back in the Nineties...Tuttavia, sarebbe sbagliato parlare di BoJack Horseman come unicamente incentrata sul proprio protagonista: la sua importanza è innegabile, certo, ma fin dall’inizio viene sottolineata l’influenza degli incredibili comprimari, su cui, almeno inizialmente, spicca soprattutto Diane ‘Nguyen (Alison Brie). Diane è il personaggio che fin da subito si pone al pari di BoJack come profondità nella caratterizzazione, e ha, specialmente nella prima stagione, il ruolo di “smascherare” parte delle illusioni a cui il protagonista si aggrappa, vista la necessità di scrivere un’autobiografia su di lui. Ma non si tratta di un ruolo puramente subordinato all’evoluzione di BoJack: con l’evolversi della serie, anche i personaggi all’inizio più abbozzati cominciano ad umanizzarsi, creando un universo ampio e sfaccettato, in cui perfino quella che sembrava destinata ad essere una macchietta perenne assume dei caratteri meravigliosamente credibili. Soprattutto nella seconda stagione, in cui la serie si è già sviluppata e può sfornare tutto il suo materiale migliore, è difficile prescindere dall’intero sistema di personaggi per parlare della serie, perché ognuno ne incarna un aspetto e dei temi diversi, dalla ricerca dell’autoaffermazione professionale di Princess Carolyn (Amy Sedaris) alla deriva apatica di Todd (Aaron Paul).

BoJack Horseman - Back in the Nineties...Ed è, appunto, con l’ampliarsi del focus della serie – che pur mantiene un’attenzione privilegiata sul dramma di BoJack – che si concretizza l’altro, grande scopo portato avanti dagli autori, ovvero la feroce e spietata critica all’ambiente di Hollywood. La location dello show permette infatti di bilanciare dilemmi “astratti” con altri ben più facili da inquadrare, costruendo una satira che attira su di sé tutte le potenzialità comiche degli autori, senza preoccuparsi di porsi un qualche limite politicamente corretto: i temi inquadrati, anzi, vertono spesso su problemi tutt’altro che facili, come la distorsione dell’immagine delle star in televisione e la necessità di sfruttare qualunque dramma personale per fare spettacolo – entrambi al centro di due tra gli episodi più riusciti della serie (“Hank after Dark” e “Let’s Find Out”).
C’è da dire, inoltre, che tale scelta trova un perfetto equilibrio con l’anima più scura della serie, in cui i “bei tempi” – se mai ce ne sono stati – sono finiti da un pezzo, dove lo spazio per la creatività, l’innovazione e la soddisfazione personale è stato riempito dalla voglia di incassare e fare audience. Il grande problema di BoJack è di natura esistenziale, ma la cornice in cui viene presentato non migliora di certo le cose, gettando gran parte dei suoi propositi nella spazzatura, bloccando qualunque tipo di iniziativa positiva: il grande pregio della meravigliosa seconda annata dello show sta proprio in questo, nel mix equilibrato tra le due componenti essenziali della narrazione, in grado di intrecciarsi e completarsi l’una con l’altra.

BoJack Horseman - Back in the Nineties...Bisogna infine citare quella che è la componente più atipica della serie, quella scelta stilistica che, a una visione molto più che semplicistica, potrebbe allontanare parte degli spettatori: BoJack Horseman è una serie animata. È un prodotto in cui il protagonista è un cavallo, la sua manager un gatto e il tizio delle news una balena gigante, dove i paparazzi sono uccelli e l’editor centenario (J.K. Simmons) una tartaruga; ma è anche una serie dove i comportamenti di ognuno sono perfettamente umani e comprensibili, dove la psicologia dei personaggi prescinde (perlomeno in profondità) dall’estetica che le viene assegnata. La scelta di un format di questo tipo, insomma, ha dei connotati puramente estetici, offre diversi spunti comici e, soprattutto, amplifica di gran lunga il salto drammatico che la serie deve compiere: la presentazione di un mondo che viene recepito come semplice ed intuitivo mette infatti lo spettatore a suo agio, ponendolo in una posizione di comfort (che è, in sostanza, quello che fa Horsin’ Around) che verrà poi prontamente sradicata, rendendo, paradossalmente, l’umanizzazione dei personaggi ancora più efficace. Il fatto che la serie sia animata, dopotutto, non vuol dire che sia più vicina ai Simpson piuttosto che a Louie, di gran lunga la più grande ispirazione per gli autori, a partire dalla sigla; l’animazione non è altro che una veste, una copertina, allo stesso modo di altre scelte stilistiche, come quella del mockumentary per molte comedy.

Con l’arrivo di Netflix in Italia, recuperare la serie è diventato molto più semplice, oltre che ormai praticamente imprescindibile; dopotutto, BoJack Horseman potrebbe benissimo essere la scommessa gestita meglio dalla piattaforma online statunitense, che ha saputo sfruttarne l’immensa qualità, le potenzialità rivoluzionarie e la diversa necessità di distribuzione. Con una terza stagione in arrivo l’anno prossimo, insomma, le aspettative sono altissime, dato il livello raggiunto nella meravigliosa seconda annata, senza alcun dubbio tra i migliori racconti televisivi di questo già popolatissimo 2015.

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5 commenti su “BoJack Horseman – Back in the Nineties…

  • Francesca Anelli

    Bellissima recensione, Pietro. Secondo me la scelta di introdurre personaggi animali serve anche a creare un distacco con la realtà che paradossalmente aiuta a guardarla meglio. Un po’ tutti gli animali rispondono ad uno stereotipo ( Mr. Peanutbutter è un cane e come tutti i cani è gioioso e un po’ scemo) ma poi alla fine se ne affrancano completamente. Come hai detto tu, la serie ci mette in una posizione di confort e poi ci destabilizza subito dopo.

     
    • Pietro Franchi L'autore dell'articolo

      Grazie mille fra! 🙂 E comunque hai detto bene, penso che Mr. Peanutbutter sia l’esempio perfetto del processo di approfondimento incredibile dei personaggi di BoJack Horseman: è partito come macchietta per poi diventare un essere “umano” a tutto tondo, e visto che staccarsi da una bidimensionalità anche estetica (nel senso che, come dici tu, ci si aspetta che si comporti solo come un cane, ovvero quello che noi vediamo) non è per niente facile, quando gli autori ci riescono il risultato è doppiamente riuscito.

       
    • Pietro Franchi L'autore dell'articolo

      Be’ anche con Mad Men ci sono tanti punti in comune, alla fine il tema di fondo è quello (entrambe le serie mettono tantissima enfasi sulla ricerca della felicità); però Louie ha più affinità stilistiche a mio parere, oltre a quelle ovviamente tematiche. La sigla poi era solo un esempio, in effetti ci sono tante similitudini anche con quella di mad men 🙂

       
  • Michele

    Ottima recensione per un’ottima coppia di stagioni!

    Come chicca, ricordo anche la citazione di Orange Is the new black, prima implicitamente, con Todd in prigione, e pii proprio esplicita nel finale musicato di un episodio.

    Detto questo, la serie è fresca e cool. Sono d’accordo che ci sia una critica di un certo tipo di società e la descrizione di com’è essere alla cima della piramide di Maslow, ma non sentirsi ancora appagati. Questo male di vivere che emerge è trattato allo stesso tempo con profondità e con un tratto leggero. Oserei dire che c’è tanta letteratura e anche un pò di psicologia e filosofia in questa serie. In fondo, il mondo dell’intrattenimento di cui Hollywood è il massimo emblema di quel cercare distrazioni e i comportamenti dei personaggi per capire se stessi e cercare di essere accettati dagli altri fanno parte di un sistema in cui tante persone sono immerse e che può essere visto come un modo per non pensare al vuoto e alla solitudine di cui hanno paura, in fondo.