Stranger Things – Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genere 2


Stranger Things - Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genereEsprimere un giudizio su un fenomeno come Stranger Things non è semplice. Non solo perché lo show sta vivendo un momento di hype in cui tutti vogliono dire la propria, ma anche per la quantità di riflessioni che suscita, grazie alla sua natura di collage originale, stratificato e intelligente che a un primo sguardo può sembrare puro citazionismo.

È indubbio infatti che in Stranger Things molti abbiano visto un semplice revival nostalgico di atmosfere degli anni Ottanta, ma se si va oltre un’analisi superficiale ci si rende conto che la natura dello show di Netflix non ha nulla a che fare con la nostalgia o il ricordo. Questo avviene soprattutto per una differenza sostanziale, che distingue il progetto dalle rielaborazioni postmoderne alla J.J. Abrams: i fratelli Duffer sono nati in quell’epoca ma l’hanno vissuta solo cinematograficamente e la usano senza alcun intento realistico o storico.
Gli eighties di Stranger Things sono dunque semplicemente un’ambientazione d’epoca, un’essenza completamente finzionale che però, grazie all’accuratezza della ricostruzione e l’attenta scelta dell’immaginario di riferimento, risulta potentissima a livello emotivo, fino a prendere (ad un esame superficiale) persino il sopravvento sulla storia vera e propria.
Ma al di là della madeleine estetica, la scelta del periodo storico è fondamentale per l’efficacia della rappresentazione di un canone narrativo ben preciso, che i Duffer vogliono rivitalizzare e omaggiare.

Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare. Questo Trisha McFarland scoprì a nove anni.
(Stephen King, La Bambina che amava Tom Gordon – tradotto da Tullio Dobner)

Stranger Things - Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genereQuesta serie è infatti, prima di ogni altra cosa, un bildungsroman che racconta il passaggio dall’infanzia ai prodromi dell’età adulta attraverso l’impatto violento e traumatico col “mondo crudele”; e i fratelli Duffer usano l’orrore come metafora per raccontare questo passaggio, muovendosi in perfetta coerenza con la tradizione letteraria e cinematografica (in cui i mostri sono utilissimi per incarnare ogni tipo di paura, dalle più concrete a quelle esistenziali) ma scegliendo all’interno di questa legacy un ben preciso genere di riferimento.
Si tratta di quello che potremmo definire “horror di formazione”, che utilizza l’horror e la fantascienza per raccontare l’infanzia e attraverso di essa portare avanti una riflessione sull’esistenza stessa, sul concetto di realtà al di là di ciò che viviamo tutti i giorni e che celebra l’immaginazione infantile come ultima oasi di libertà prima di fare i conti coi ruoli predefiniti e con gli obblighi che ci impone la società.
Questo genere è il campo di gioco su cui si misura la narrazione di Stranger Things, lo stesso campo che Steven Spielberg nel cinema e Stephen King nella letteratura hanno reso grande con storie che sono diventate iconiche e fondanti.

Scrittori, cineasti, artisti godono del privilegio di rimanere bambini per tutta la vita (…) delegati al gioco per conto di quanti non ne hanno più il tempo, la voglia o la possibilità.
(Stephen King in un’intervista a Repubblica, settembre 2014)

Stranger Things - Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genereNel mare magnum di citazioni di cui è disseminata la serie, il regista di E.T. e il romanziere di IT sono non a caso i riferimenti più forti ed evidenti, non soltanto perché le loro opere più famose fanno parte dello stesso universo narrativo da un punto di vista storico, ma perché il plot della serie è costruito su canoni e topic che in molti casi loro stessi hanno creato.
Così come il western non può fare a meno di citare Ombre Rosse e ogni film apocalittico afferisce a un’estetica costruita dal ciclo di Mad Max, allo stesso modo se si racconta una storia di infanzia e di amicizia sono i film di Spielberg e i libri di King la pietra miliare di riferimento.
L’intento di Stranger Things è infatti molto simile a quello di True Detective: prendere i canoni narrativi del bildungsroman di matrice orrorofica, omaggiandoli nella forma ma rivisitandoli in modo sostanziale – per True Detective il genere è il buddy cop, ma qualcosa di simile sta facendo anche The Night Of col procedurale, o Penny Dreadful con l’horror classico – rispettandone il rigore formale ma raccontando nella sostanza qualcosa di ben diverso fin quasi alla reinvenzione del genere stesso.
Nessuno come Spielberg e King ha saputo vedere (e raccontare) l’infanzia come paradiso perduto, a volte idealizzato ex-post, a volte rimosso, ma sempre momento traumatico e magico di cui ognuno di noi conserva da qualche parte memoria, una memoria quasi impossibile da ritrovare come adulti.
Grazie all’amicizia e alla fantasia, a quella percezione del mondo che solo a quell’età possediamo, i bambini e i ragazzi di Stranger Things riescono ad affrontare una prova difficilissima che gli adulti “normali” non riescono neppure a vedere, aiutati non a caso da una madre e un poliziotto che, per motivi diversi, dal mondo degli adulti sono scollegati, outsider di quella società che neppure si accorge del mostro che aspetta in agguato.

Parliamo, io e voi. Parliamo della paura. (…) Non alzeremo la voce e non ci metteremo a urlare. Parleremo razionalmente. Voi e io. Parleremo del modo in cui il solido tessuto delle cose si disfa, a volte, con una subitaneità che ci lascia scossi
(Stephen King, A Volte Ritornano)

Stranger Things - Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genere«Da dove viene la paura?» chiede King nella sua prima postfazione, quella della raccolta di racconti “A volte ritornano”, ed è la stessa domanda che viene naturale porsi di fronte al mondo Upside Down di Stranger Things: è davvero un universo parallelo, diverso da quello reale? Se è possibile aprire dei varchi tra questi due mondi, fin dove arriva la compenetrazione con il nostro piano di realtà? Ma soprattutto, come possiamo difenderci dai mostri che lo popolano?
La paura che proviamo vedendo lo show è la stessa dell’immaginario di King, quella che coincide con l’ignoto, con il corpo sotto le foglie nel bosco e con il mostro che (forse) ci aspetta sotto il letto. Quella paura che si sconfigge solo con il coraggio e l’incoscienza che sono il privilegio di una mente infantile ancora non del tutto consapevole della propria mortalità, o di una mente adulta che ha saputo mantenere i legami con quell’epoca della propria vita.
La paura è il grande significato della narrativa dell’orrore, il motivo del suo successo e il motivo per cui questa serie, come i romanzi di King, ci cattura e ci tiene incollati al racconto per giorni interi: in un processo di mimesi e catarsi, i grandi orrori rappresentati ci aiutano a superare gli orrori della vita reale.
L’ignoto – come il mostro dell’Upside Down che non viene quasi mai visto nella sua interezza ma intravisto, intuito – è il più grande di questi piccoli terrori quotidiani: il non sapere cosa ci succederà domani, la consapevolezza del fatto che la nostra vita può finire da un momento all’altro, quella sensazione di mortalità che vive costantemente nel nostro subconscio e che cerchiamo di scacciare con tutte le nostre forze ma che al tempo stesso ci attira e ci incuriosisce.
Via via che cresciamo diveniamo sempre più consapevoli della nostra inevitabile scomparsa e, dunque, abbiamo sempre più paura e meno frecce al nostro arco per combattere i mostri; per vincere, quindi, è necessario essere bambini o almeno ritrovare quel mondo, quella forza e anche quell’incoscienza spavalda di chi l’ignoto lo vede non come infiniti orrori ma come infinite possibilità.

“«Andate a farvi fottere», dissi, e tirai su il culo, mostrandogli il medio da sopra la spalla mentre mi allontanavo. Non ho mai più avuto amici, in seguito, come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, e voi?”
(Stephen King, Stand By Me)

Stranger Things - Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genereI bambini di King, ancora più di quelli di Spielberg, non hanno paura ma hanno sicuramente sofferto. Sono bambini poveri, oppure sono vessati dagli adulti o ancora hanno subito dei lutti, spesso a causa delle normali ingiustizie della vita (come i bulli di A volte ritornano, che tornano in vita per tormentare il protagonista) ma anche dei propri talenti e poteri, come la luccicanza di Danny di Shining o le doti paranormali della protagonista de L’incendiaria che è anche principale fonte di ispirazione per la Eleven di Stranger Things. Addirittura i protagonisti di IT, Danny e il protagonista di Stand By Me da adulti hanno rimosso gli eventi traumatici del passato fino a dimenticarsi dell’esistenza delle persone che con loro hanno vissuto certi orrori.
Sono bambini veri, un po’ sfigati, poveri, lontanissimi da quell’idealizzazione dell’infanzia di cui questo nuovo millennio sembra non poter fare a meno, e proprio grazie a questa loro verosimiglianza riescono a sbatterci in faccia il bambino che anche noi siamo stati, al di là delle facili nostalgie.
I protagonisti di Stranger Things, come loro, sono dei perdenti agli occhi dei coetanei, discriminati per il loro aspetto, per la loro posizione sociale, per l’essere effeminati oppure grassi o nerd.
Sono lontanissimi da quell’ideale nostalgico che molti imputano, sbagliando, alla serie, anzi ci fanno rivivere quei traumi che hanno poi segnato il nostro percorso di adulti e ci hanno resi quello che siamo – perché come per Spielberg, anche per King ogni adulto decente è un bambino che ha sofferto e che quella sofferenza l’ha usata per diventare una persona migliore – ,traumi che però restano indelebili nella nostra memoria e ci fanno essere vulnerabili alla commozione, empatici e coinvolti da questo show. Stranger Things non si limita a mettere in scena le esperienze (reali o cinematografiche poco importa, perché il confine tra le due esperienze è piuttosto sottile, per chi ama il cinema fin da bambino) idealizzate della nostra infanzia, ma ci fa vedere anche i suoi mostri e i suoi orrori.

Mimesi e catarsi, ancora, come in ogni buona storia horror.
Perché magari la maggior parte di noi a dieci anni non ha disintegrato col pensiero un essere venuto da un’altra dimensione, ma tutti abbiamo combattuto con i piccoli mostri dell’ingiustizia che ci sembravano tanto grandi da bambini e che ancora oggi, da adulti, ci fanno rabbrividire.

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Informazioni su Eugenia Fattori

Bolognese di nascita - ma non chiedete l'età a una signora - è fanatica di scrittura e di cinema fin dalla culla, quindi era destino che scoprisse le serie tv e cercasse di unire le sue due grandi passioni. Inspiegabilmente (dato che tende a non portare mai scarpe e a non ricordarsi neanche le tabelline) è finita a lavorare nella moda e nei social media, ma Seriangolo è dove si sente davvero a casa.


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2 commenti su “Stranger Things – Oltre il citazionismo, la reinvenzione di un genere

  • Ellis

    Una recensione meravigliosa. É vero, la serie solletica il bambino che siamo stati, che avremmo voluto essere, che contempliamo nei nostri figli. Non è un bambino perfetto, ma convinto, amico, pieno di speranze. Nessuno ultimamente mette a tema questa infanzia.

     
  • Michele

    Recensione bellissima!
    Brava Eugenia!!
    Stranger Things è stata un’ottima serie: addictive da vedere, cool nelle citazioni e nell’ambiente che ha creato, e profonda nel livello di tematiche che ci stanno sotto.
    Non vedo l’ora che arrivi la seconda stagione 🙂