When We Rise – Stagione 1


When We Rise – Stagione 1In otto episodi mediamente ben bilanciati fra i toni documentaristico e romanzato, When We Rise riesce a raccontare, attraverso la storia di tre attivisti del movimento per i diritti civili dai moti di Stonewall del ‘69 fino ai giorni nostri, anche la storia, più intima e più sottile, del mutamento delle coscienze umane.

Ispirata al memoir di Cleve Jones, uno dei personaggi ritratti dalla serie, When We Rise: My Life in the Movement, da cui riprende anche parte del titolo, When We Rise nasce dalla collaborazione di personalità già familiari con l’universo tematico LGBT (Gus Van Sant e Dustin Lance Black sono stati rispettivamente la macchina da presa e la penna da cui è nato Milk) o con quello televisivo (Dee Rees e Thomas Schlamme).
L’intenzione (riuscita) è quella di dare una visione d’insieme del movimento per i diritti civili portato avanti fra San Francisco e dintorni per più di quattro decadi – la narrazione comincia nel ’72 nella San Francisco post-moti di Stonewall e si conclude nel 2013 con la legalizzazione del matrimonio omosessuale a livello nazionale durante la presidenza di Obama – facendo leva sulla spontaneità con cui il medium televisivo si relaziona alla durata se confrontato, ad esempio, al cinematografico che ha reso per lo più possibili rappresentazioni più puntuali di questo soggetto (ritorniamo a citare Milk, il biopic sull’attivista Harvey Milk la cui vicenda incrocia anche la narrazione di When We Rise nella parte III).

When We Rise – Stagione 1Oltre ad adattarsi più agevolmente ad una narrazione prolungata sul piano diacronico, il telefilmico offre anche più spazio allo sviluppo e all’approfondimento di diversi nuclei tematici e l’intelligenza della serie è stata precisamente quella di aver saputo associare all’arco narrativo di ogni personaggio protagonista una tematica suscettibile di ampliare ed integrare l’idea di partenza (pur correndo il rischio di risultare abbastanza elementare sul piano architettonico): abbiamo così il punto di vista che lega la discriminazione omosessuale a quella razziale e religiosa con il personaggio di Ken Jones (Jonathan Majors/Michael K. Williams), i problemi di intolleranza (e poi di riavvicinamento) del nucleo familiare e della tragedia del “gay cancer” con Cleve Jones (Austin P. McKenzie/Guy Pearce), la battaglia del movimento femminista con Roma Pauline Guy (Emily Skeggs/Mary-Louise Parker) e la questione della famiglia omogenitoriale con Diane Jones (Fiona Dourif/Rachel Griffiths).

C’è da dire, a questo punto, che sul piano essenzialmente narrativo non si percepisce un intreccio propriamente detto: ad esclusione di Roma e Diane (le loro sono, forse, le uniche due storyline ad intrecciarsi effettivamente sullo schermo), le vicende dei personaggi si costeggiano solamente ed i pochi punti di contatto rischiano di sembrare artificiosi, dettati più che altro dalle necessità di vicinanza tematica. In generale non sembra che la serie riesca a restituire dei personaggi in grado di andare oltre la funzione di veicolo della tematica che gli viene associata.

When We Rise – Stagione 1Ne risulta, comunque, un quadro composito e colorito del percorso storico del riconoscimento sul piano giuridico (oltre che umano) delle varie minoranze. In più, la dimensione transgenerazionale del discorso che si viene di conseguenza a creare invita ad una riflessione sull’evoluzione (o, in termini più neutri, sul mutamento) delle forme della lotta e dell’engagement generazionale nel corso delle varie decadi: dalle marce per le strade di San Francisco alle “guerre fredde” nei tribunali.

La serie, certo, si interroga sulle sorti che questo movimento per i diritti civili potrebbe avere nel contemporaneo e nel futuro prossimo, una volta che la generazione di Cleve, Ken e Roma ha, per così dire, fatto il grosso del lavoro – “What’s it like to be part of the first generation in this country with no purpose? And what are you going to do about it?” – ma non sembra andare oltre la provocazione (vista soprattutto l’enfasi sull’happy ending strappalacrime). Si potrebbe pensare che When We Rise più che dare una risposta a questioni di questo tipo si ponga essa stessa come risposta (o perlomeno come una delle risposte possibili) per la sua natura di serie televisiva capace di filtrare un discorso di tipo etico-politico e di invitare il suo pubblico alla riflessione.

Unico rischio per questo discorso intrapreso dalla serie è, forse, dato dal fatto che in alcuni punti della narrazione prenda il sopravvento una retorica in qualche modo “vittimista” che riduce la figura del gruppo sociale storicamente dominante (maschio, bianco, occidentale, eterosessuale) ad una figura esclusivamente antagonista. Si sente la mancanza, in questo senso, di un personaggio simbolicamente positivo (o anche solo più sfumato) proveniente da questa categoria capace di complicare un discorso altrimenti quasi-unilaterale che rischia di alimentare, anziché combattere, un altro tipo (decisamente meno innocuo) di retorica vittimista, che è quello della distorsione del  discorso sull’oppressione operata dall’Alt-right.

When We Rise – Stagione 1Se è vero che anche la forma è portatrice di un contenuto, si potrebbe far notare come anche il genere scelto, il documentary-drama, sia un genere “meticcio” che obbliga gli autori ad uno sforzo metaforico per far convivere, valorizzandoli al contempo, i racconti documentaristico e drammatico. Il più delle volte la serie riesce nell’intento e sfrutta la compresenza dei due registri per raccontare, insieme, la vicenda storica del movimento per i diritti civili e la vicenda personale dei protagonisti. Vi sono, tuttavia, momenti in cui il (sovra)drammatico toglie spazio al tono più pacato del racconto storico, vanificando il potenziale espressivo del genere ibrido.

Pur non privo di difetti, When We Rise rappresenta, forse, uno dei (rari) casi in cui potrebbe aver senso incoraggiare una “riduzione dell’estetica sull’etica”, vale a dire un tipo di valutazione che ha la tendenza a valorizzare la funzione etica del prodotto artistico anche a discapito del punto di vista squisitamente estetico: la serie si mantiene su un discreto livello visivo e architettonico ed è mediamente ben bilanciata fra il racconto documentaristico e quello drammatico (c’è, in alcuni punti, qualche spinta sul pulsante drama di troppo), ma risulta un prodotto interessante più che altro dal punto di vista etico-politico perché propone una riflessione di inedita ampiezza sull’evoluzione della prospettiva storica e umana sui diritti civili.

Voto: 7½

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Informazioni su Irene De Togni

Nata a Verona, ha studiato Filosofia a Padova e Teoria letteraria a Parigi. Non simpatizza per le persone che si prendono troppo sul serio ma le piacerebbe che le serie TV venissero prese un po’ più sul serio (e ora che ha usato due volte l’espressione “prendersi sul serio” non è più sicura di quello che significhi).

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