Stranger Things – Stagione 2 4


Stranger Things – Stagione 2Diventata in poche settimane un instant cult, Stranger Things – operazione di mimesi capillare e al contempo atto d’amore spassionato per un tempo che non c’è più – arriva all’attesissima seconda stagione con l’impervio compito di ripetersi, disarmata dell’effetto novità e obbligata a cambiare qualcosa per replicare il successo.

I fratelli Duffer hanno dimostrato di avere il talento, la maturità e la competenza per realizzare un prodotto inimitabile, che anche quest’anno mette al centro della propria riflessione la nostalgia, quel sentimento che rimanda a un tempo passato in cui l’ideale ha ormai superato il reale. A partire da questo discorso la serie adotta un punto di vista che citando tanto cinema degli anni Ottanta posiziona l’infanzia e la fantasia nel cuore del racconto, riuscendo in questo modo a fondere il coming of age con la fantascienza, l’horror con la fiaba. Ancora una volta l’ossessione (ricordiamo il sistema di lucine costruito da Joyce l’anno scorso) ricopre un ruolo centrale facendosi strumento per un’accurata riflessione sulla diversità, sullo splendore insito nell’anomalia (che siano i capelli di Max, i mille talenti di Dustin, le insicurezze di Steve e Lucas o la paranoia di Joyce), spesso motore di passioni così forti da pervadere l’intera esistenza dei personaggi della serie. La loro è una smisurata fiducia nel meraviglioso e nel fantastico che vede in Incontri ravvicinati del terzo tipo il modello per eccellenza, sia dal punto di vista delle atmosfere sia per l’ossessiva riproduzione del labirinto sotterraneo da parte di Will, che rimanda a quella della Torre del Diavolo dei protagonisti del film del 1977.

Oltre l’avventura: the day after

Stranger Things – Stagione 2La scoperta di Eleven e dell’Upside Down per Mike, Dustin, Lucas e gli altri ha rappresentato l’anno scorso l’inizio di una stupefacente avventura incardinata nella ricerca di Will e declinata nei canoni del bildungsroman classico, con riferimenti sia a Stand by Me che a Mark Twain. Quello stesso senso di stupore, di meraviglia e di fiducia in un mondo in grado di trascendere le stanche e rigide regole della fisica ha accompagnato anche gli spettatori, i quali hanno idealmente cavalcato sulle BMX insieme ai protagonisti.
Questa seconda annata decide nella sua prima metà di esplorare l’altra faccia della medaglia mettendo a fuoco senza paura gli strascichi di quell’esperienza, concentrandosi in particolare sulle conseguenze riportate dai protagonisti e sul senso di perdita e di inadeguatezza che domina il racconto. La scomparsa di Barb è naturalmente uno degli elementi principali, utilizzato in particolare per caratterizzare il personaggio di Nancy, afflitta dai sensi di colpa, insoddisfatta dalla relazione sentimentale con Steve e indifesa di fronte alle tentazioni dell’alcol. Il più colpito di tutti è però Will, soprannominato “Zombie Boy” dai compagni di scuola, trattato da amici, parenti e medici con un riguardo così tanto invadente da farlo sentire ancora più strano e accentuare le sue già significative insicurezze. L’altra grande ferita di questa stagione è quella nel cuore di Mike a seguito della scomparsa di Eleven: esattamente come E.T. per Elliott nel film di Spielberg del 1982, la ragazzina ha significato per Mike non solo la scoperta di sentimenti mai provati prima, ma anche il partner di un’avventura che fino a quel momento aveva potuto solo sognare. È nello specchiarsi delle difficoltà di Will e di Mike che la prima parte della stagione conosce uno dei suoi momenti più alti, riportando l’attenzione sulla forza della loro amicizia proprio nel momento di massimo bisogno ed è impossibile non commuoversi nel momento in cui Will dice a Mike “We will be crazy together”.

What’s going on here?

Se è vero che ripetersi è spesso più difficile che stupire tutti per la prima volta, è altrettanto vero che la cultura cinematografica e televisiva dei fratelli Duffer è costituita da un caleidoscopio di prodotti, miti e narrazioni della pop culture degli ultimi quarant’anni fatto anche di sequel, prequel, reboot, rifacimenti e riscritture di ogni genere. I due autori hanno infatti dichiarato che per questa stagione si sono ispirati ai tanti sequel di successo della storia del cinema, da Indiana Jones e il tempo maledetto ad Aliens – Scontro finale passando per Terminator 2 – Il giorno del giudizio, non solo citandoli esplicitamente ma tentando di replicare la formula che ha permesso a questi film di ripetere il successo del film che li ha preceduti.
In un modello produttivo e distributivo come quello di Netflix, in cui l’unità minima di riferimento non è più il singolo episodio ma l’intera stagione, a cambiare sono anche i concetti stessi di ripetizione e serializzazione. Dopo la fruizione immersiva della prima annata è infatti solo con la seconda che si può davvero parlare di serialità, chiamando in causa i concetti di ritorno del già noto, di ripetizione e di variazione sul tema. Di già noto abbiamo le atmosfere, i personaggi e quella irresistibile voglia di fantasia: tornare a Hawkins è per gli spettatori come tornare a casa, nel posto in cui sentirsi di nuovo bambini. A ripetersi sono una serie di situazioni narrative, come i triangoli amorosi, e di tematiche, come l’importanza dell’unità del gruppo di amici. A diversificare questa stagione, sono invece le variazioni sul tema: l’introduzione dei personaggi di Max, del fratellastro Bill, di Bob, del dottor Owens e di Murray Bauman (uno straordinario Brett Gelman) gioca a questo proposito un ruolo determinante.

Being a freak is the best!

Stranger Things – Stagione 2Una delle parole chiave della seconda stagione di Stranger Things è espansione, in particolare per quanto concerne le maglie del racconto e le backstory dei personaggi. Sotto questo punto di vista se l’anno scorso la ricerca di Will ha svolto il ruolo di accentratore delle linee narrative, quest’anno la struttura della serie ha una forma meno lineare e più reticolare, volta ad approfondire meglio la sfera individuale di alcuni personaggi e portare avanti alcuni discorsi cominciati l’anno scorso.
Un nucleo tematico che svolge un ruolo quasi indipendente per parte della stagione è quello legato a Nancy e Jonathan: attraverso la ricerca di Barb i due si immergono in un’avventura fatta di complotti e insabbiamenti che ha come esito principale non tanto il fare chiarezza sulla sorte dell’amica quanto far scattare definitivamente la scintilla – grazie anche all’aiuto provvidenziale di Murray – fra loro, aiutandoli a superare l’inibizione. Una delle conseguenze positive di quest’isolamento è l’approfondimento riservato a Steve, il quale una volta persa la donna amata trova la sua rivincita nell’azione e in particolare nel rapporto con Dustin che mette in scena alla perfezione l’unione di due personaggi per ragioni diverse bisognosi di affetto. Un altro spaccato molto interessante è quello riservato a Lucas e alla sua famiglia: all’interno del classico ritratto del ragazzino le cui passioni non sono comprese fino in fondo dal resto dei parenti, emerge l’esilarante sorellina Erica i cui dispetti nei confronti del fratello e della sua banda costituiscono alcuni dei momenti comici più riusciti dello show.
Nella ramificazione narrativa di questa stagione il compito più complicato è legato alla gestione di Eleven, sia perché dopo il finale dello scorso anno la ragazzina si trova sostanzialmente isolata dal resto, sia perché la sua eccezionalità la rende inevitabilmente diversa dagli altri. Su di lei viene fatto un lavoro stratificato e impostato su alcune delle principali tematiche del cinema eighties hollywoodiano come il bisogno dell’affetto genitoriale, la ribellione nei confronti dell’autorità e l’incontro con la morte. I Duffer riflettono sulla solitudine della ragazza riprendendo i convincenti riferimenti a Under the Skin per sviluppare in maniera struggente l’approfondimento sulla protagonista: dispositivi come la TV e la radio diventano i medium che letteralmente mettono in comunicazione Eleven con i propri sentimenti più reconditi e con i propri traumi portandola anche a sviluppare poteri a lei ancora ignoti.

The Lost Sister

Stranger Things – Stagione 2Se la prima stagione era composta di otto compattissimi episodi, la seconda ne ha otto più uno speciale e dissonante dal resto, collocato alla posizione numero sette. Si tratta di una scelta molto coraggiosa dal punto di vista narrativo e che immediatamente ha fatto discutere, dividendo sia la critica (a cominciare dagli Stati Uniti) sia i pareri dei fan sui social network.
Dal punto di vista strutturale gli autori, dopo aver costruito un racconto progressivamente più avvincente, decidono di prendersi una brusca pausa operando una svolta improvvisa, ma non per questo irrilevante o non necessaria. La storyline di Eleven, a causa della scelta di isolare la ragazza dal resto, risulta fino a quel momento da una parte sempre più intrigante ma dall’altra un po’ troppo scollegata dal racconto principale. Sulla base di questa distanza, i Duffer optano per una detour che in realtà conduce lì dove la stagione è iniziata: il viaggio di Eleven a Chicago rappresenta un confronto della protagonista con il proprio passato, una tappa necessaria alla conoscenza di sé stessa e delle proprie straordinarie capacità.
La sorella perduta di Eleven è, andando dal micro al macro, anche quella di Stranger Things: questa deviazione infatti suona anche come una sorta di what if narrativo, come il pilot di una serie gemella sviluppatasi diegeticamente in un modo parallelo a partire da un altro tipo di immaginario, quello del punk urbano statunitense dei Guerrieri della notte e di 1997: Fuga da New York.
Attraverso questa deviazione i Duffer riescono a realizzare una sorta di origin story superoistica in cui Eleven, come il protagonista di un comic movie, si confronta con un contesto nuovo e con i propri lati oscuri per conoscere fino in fondo se stessa (il passaggio da numero – Eleven – a nome – Jane – le conferisce a tutti gli effetti un’identità) e le doti che possiede. Se è vero che a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità, allora la protagonista, dopo aver elaborato la violenza e l’omicidio e aver avuto un ultimo struggente confronto con il “padre”, capisce definitivamente che il suo destino è andare a salvare Mike e gli altri, perché è quello l’unico posto che può davvero chiamare casa.

La mente alveare

Stranger Things – Stagione 2I fratelli Duffer hanno scelto di chiamare la seconda stagione Stranger Things 2 per una ragione abbastanza chiara: volevano fosse un sequel e quindi legarsi (come anticipato più sopra) alla tradizione cinematografica dei capitoli 2, facendo di questa annata qualcosa di simile a Il mondo perduto. In quest’ottica la seconda metà di stagione – e in particolare l’ultima coppia di episodi – mette perfettamente in evidenza l’intenzione di elevare l’asticella della spettacolarità, rendendo la serie più action rispetto al passato, senza però rinunciare alle tematiche che ne hanno decretato il successo.
I Demodog costituiscono pertanto un’idea vincente: la loro dinamicità aumenta la possibilità di realizzare scene d’azione; il loro inserimento nel laboratorio permette agli autori di realizzare una situazione alla Jurassic Park; l’imprevedibile evoluzione di queste creature viene seguita passo dopo passo dai protagonisti. A questo proposito riesce ad emergere anche il personaggio di Bob, che oltre a essere il compagno perfetto perché dolcemente goffo, sempre aperto alle novità e mai snob, si dimostra anche un eroe per caso grazie alle propria attitudine da geek rendendo ancora più struggente la sua tragica fine. So long “Bob Newby, Superhero”.

In questo processo di intensificazione dello spettacolo un ruolo di primo piano è ricoperto dal “cattivo” e sotto questo aspetto l’idea della mente alveare si rivela assolutamente geniale: in questo modo gli autori possono costruire un nemico apparentemente invincibile e (in tutti i sensi) tentacolare; allo stesso tempo questa intuizione non solo rimanda a D&D (The Mind Flayer è infatti una delle tante intriganti figure del gioco), ma è anche un riferimento all’intelligenza collettiva, simbolo del percorso compiuto dalle generazioni di nerd che dagli anni Ottanta sono arrivate fino al web e ai social network e che vedono nei ragazzini di Stranger Things degli splendidi antesignani.
L’alto tasso di spettacolarità di questa stagione è dovuto anche al lavoro compiuto su Eleven, personaggio che, come dimostrato dal settimo episodio, oltre a essere estremamente stratificato porta con sé anche una spiccata vena action (supportata dalle capacità interpretative di Millie Bobby Brown), che le conferisce un’identità ambivalente facendone sia un freak come tutti gli altri sia una supereroina. La fiducia di Mike in lei non è solo il modo con cui gli autori mettono in scena una relazione troncata sul nascere, ma rappresenta anche il simbolo di una speranza (quasi generazionale) in un mondo diverso, in cui fare del proprio partner speciale qualcosa in grado di illuminare tutto il resto, che sia esso un amico immaginario o un supereroe. Esaltare questo ruolo di Eleven costituisce per i Duffer anche l’occasione per rendere l’estetica della seconda stagione più cinematic costruendo sequenze girate alla perfezione, come quella del salvifico ritorno a Hawkins della ragazza o quella in cui tutti i suoi poteri sono utilizzati per chiudere il portale che collega all’Upside Down.

Friends don’t lie

Stranger Things – Stagione 2Dopo due stagioni di altissimo livello, di Stranger Things resta un’articolata e sentita riflessione sulla nostalgia che è riuscita a trovare un equilibrio perfetto tra rievocazione di un mondo che non c’è più (e che forse in questi termini non è mai esistito) e la finzionalizzazione di un’immaginario costruito su emozioni reali, sogni di biciclette che vanno verso il cielo e cacce al tesoro dei pirati (scegliere Sean Astin, protagonista dei Goonies, per interpretare Bob è stata una scelta azzeccatissima).
I Duffer riescono a plasmare questo immaginario a loro immagine e somiglianza, ragionando non tanto dalla parte di chi quell’epoca l’ha vissuta (hanno entrambi poco più di trent’anni) ma da quella di chi quel mondo lo ha sognato attraverso i dispositivi (proprio come Eleven), di chi è si è formato sul quell’immaginario veicolato dalla cultura popolare. Nel far ciò i due autori riescono a mettere in scena un universo talmente originale e accattivante da far propria quell’idea di mondo (e quell’idea di cinema e di narrazione tout court), mettendo un marchio personale che elimina la sensazione di rifacimento dalla fruizione spettatoriale, come già sottolineato questo approfondimento dell’anno scorso. Analogamente a quanto fatto da Tarantino, che in Kill Bill prende la tuta di Bruce Lee e la risemantizza sul corpo di Uma Thurman, i Duffer pescano a piene mani da un mondo audiovisivo e letterario preesistente ma al contempo configurano un’estetica fortemente personale, tanto che (ad esempio) l’ipnotica sigla, pur rimandando inevitabilmente a John Carpenter e a Stephen King, è ormai diventata un marchio di fabbrica inconfondibile.

Dopo un’attesa di oltre un anno, nella quale si sono susseguiti affollatissimi panel ai Comic-Con di tutto il mondo e la contagiosa passione per la serie è passata di casa in casa, la seconda stagione di Stranger Things si trovava di fronte a un precipizio, messa sotto la pesantissima pressione di ripetere il miracolo. Nonostante ciò, i Duffer ce l’hanno fatta ancora, riuscendo a realizzare una seconda annata che mantiene tutti i pregi della prima e che al “fattore novità” sostituisce il riuscitissimo tentativo di espansione e diversificazione.

Voto: 9

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Informazioni su Attilio Palmieri

Di nascita (e fede) partenopea, si diploma nel 2007 con una tesina su Ecce Bombo e l'incomunicabilità, senza però alcun riferimento ad Alvaro Rissa. Alla fine dello stesso anno, sull'onda di una fervida passione per il cinema e una cronica cinefilia, si trasferisce a Torino per studiare al DAMS. La New Hollywood prima e la serialità americana poi caratterizzano la laurea triennale e magistrale. Attualmente dottorando all'Università di Bologna, cerca di far diventare un lavoro la sua dipendenza incurabile dalle serie televisive, soprattutto americane e britanniche. Pensa che, oggetti mediali a parte, il tè, il whisky e il Napoli siano le "cose per cui vale la pena vivere".


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4 commenti su “Stranger Things – Stagione 2

  • Michele

    Ecco, vi aspettavo! Ottima recensione, veramente cazzuta, bravo Attilio! 🙂

    Devo dire che ST è stato un piacere da vedere e hai ragione da vendere quando parli della bravura dei Duffer a creare atmosfere e ambientazioni e intelligenza collettiva.

    Devo dire che ho trovato meno convincente la seconda parte della stagione, in particolare il finale è stato un pò sottotono ed episodio sette è stato proprio deludente:
    – Finale: è vero che è diventato un finale con molta più azione, ma trovo sia stato costruito in maniera debole. I demidog sono dei mostri assassini contro scienziati e militari addestrati per avere a che fare con l’ignoto e possono far chiudere un lab federale senza che nessuno nel resto dei USA se ne accorga. Poi però se trovano uno sceriffo e dei ragazzini sono facilmente ingannabili o sparabili o corrompibili con cioccolata. Per non parlare di Eleven, che è più forte di tutto e tutti e quindi chiude il Gate. Io avrei spinto per una suspense a suo modo più credibile, rallentando il ritmo a cui i demidog prendono possesso del lab (magari facendo una puntata solo su quello) e tagliando altre scene che dicono meno (tipo, chi se ne frega del fratello di Max?)
    – Puntata sette: qui son deluso. All’inizio quando ho visto 008 è stato un pò come all’inizio della terza stagione di Lost, quando compare la coda dell’aereo. Avevo l’impressione che si aprisse un mondo. Invece 008 è stata usata come stepping stone di Eleven in modo troppo forzato. In una notte 008 convince la “sorella” a votarsi a un piano di vendetta, andare da New York a Chicago in giornata per uccidere un ex carceriere con lo scopo di far capire a Eleven quali sono i confini della propria umanità? WTF? E’ certamente coraggioso, ma anche troppo forzato e calato dall’alto per essere credibile.

    Insomma, considerando tutto questo, io darei un 8 a questa seconda stagione. 🙂

     
    • Attilio Palmieri L'autore dell'articolo

      Ciao Michele, innanzitutto grazie. Fanno sempre piacere i complimenti, specie riguardo a recensioni sentite come questa.
      A me la struttura della stagione ha convinto molto, soprattutto per come sono riusciti a bilanciare lo sviluppo di temi cari alla serie già dall’anno scorso e gli elementi nuovi. Il personaggio di Max è sotto questo punto di vista essenziale e non è un caso che il primo episodio sia fin dal titolo dedicato a lei. In questo senso ha anche un ruolo importante Bill, sia perché come dicono gli stessi Duffer era giusto avere anche un villain umano, sia perché un “cattivo” del genere è molto utile per permettere a Max di integrarsi nel gruppo, oltre che a caratterizzarla meglio. Poi vogliamo davvero dimenticarci la sequenza tra Bill e la mamma di Mike?
      Per quanto riguarda i demodog secondo me sono stati un’ottima idea, sia perché assolvono perfettamente all’obiettivo di realizzare un nemico “collettivo”, sia perché il loro dinamismo rende la stagione più action della precedente. A questo proposito a me gli ultimi due episodi sono piaciuti molto e sono passati in un attimo, specie perché riescono tra le altre cose a dare un senso e una fine meravigliosa al personaggio di Bob, e anche perché tutta la sequenza finale del ballo è una delle più vere e potenti dell’intera serie.
      Sul settimo episodio, come hai letto dalla recensione, siamo purtroppo in disaccordo. Certe svolte narrative sono ovviamente strumentali, ma gli obiettivi sono altri, sono porre Eleven di fronte alle tentazioni dei suoi poteri, farla sedurre dal lato oscuro, approfittandone per cimentarsi in un worldbuilding urban-punk perfetto, per poi farle prendere la decisione di tornare a casa, lì dove i suoi amici la aspettano. Io mi sono divertito molto e l’ho trovato un episodio molto significativo. Però avendo diviso molto anche la critica americana, ci sta che possa non piacere.

       
  • Nemo

    Mi aggiungo ai complimenti per la recensione che trovo perfetta. Aggiungo solo che, a differenza della prima, il “citazionismo” dei Duffer Brothers si allarga anche alla teen comedy degli anni ’80. A quei film come “Pretty in pink” che hanno segnato l’adolescenza per uno un po’ più attempato come me. L’arrivo di Max che crea scompiglio nel gruppo, la trasformazione di Eleven (l’ingresso in scena coi i risvolti ai jeans ha riportato a galla nostalgia e un po’ di schifo per come ci vestivamo), la storia tra Nancy e Jonathan, fino al ballo finale rientrano perfettamente in quel mondo che aveva in Molly Ringwald la sua regina incontrastata.

     
  • Ellis

    Che dire? Ho persino apprezzato più la seconda dalla prima! Vero, verissimo: la forza della serie è la capacità di riportarci nel mood incredibile della preadolescenza, dove il fantastico è il reale, e dove tutto è serissimo ed al contempo leggero, e possibile. Una parola sul ballo finale. Mi ha commosso. Alzi la mano chi non si è identificato in almeno uno (o più) di quei tredicenni. Emozioni intense in una scena coraggiosa, che ci dice che la serie offre molto più che fantasia, azione ed anni ’80, ma ci regala il ritorno ad un’ età così fugace e particolare da essere molto poco narrata.