Giunti ormai alla seconda parte di questa stagione, composta da tre episodi in più rispetto alla brillante prima annata, è possibile cominciare a fare qualche considerazione un po’ più sicura riguardo al confronto tra le due stagioni, tagliando quindi il ponte del continuo parallelo con la serie madre e avviando una più costruttiva riflessione riguardo alla crescita dello show in quanto tale. Cosa possiamo dire di The Good Fight a metà della sua seconda annata (e da pochissimo confermata per una terza)?
Una cosa è certa: il livello, che già lo scorso anno era stato molto alto, si è incredibilmente alzato ancora di più, sfruttando la crisi politico-sociale che l’America sta vivendo, ma senza al contempo sfruttarla nel senso bieco del termine.
Se c’è una cosa che Robert e Michelle King hanno sempre saputo fare molto bene (probabilmente a volte con l’ausilio di una sfera di cristallo, o certe cose non si spiegano) è stato quello di parlare del presente analizzandolo con una capacità d’indagine davvero inusuale: se infatti mettere in scena la contemporaneità a livello tematico e a grandi linee – cogliendo un certo sentimento comune e costruendoci intorno una narrazione finzionale – non è certo una cosa mai vista prima (basti pensare, ancora oggi, a Homeland), con The Good Fight si è raggiunto con ogni evidenza un livello più alto. Già l’anno scorso si parlava di come l’elezione di Trump avesse comportato delle modifiche in corso d’opera alla storyline di Diane, ma è ora che il gioco si fa più difficile: in un periodo in cui le novità e gli scandali sono all’ordine del giorno, mettere in scena una serie che su quel tessuto socio-politico si basa è un compito arduo, che solo due acuti lettori della contemporaneità possono svolgere in modo così nitido, sobbarcandosi a volte di qualche rischio (come da loro stessi dichiarato, in certi casi tengono pronte delle frasi alternative da sostituire in post-produzione), ma portando avanti fieramente un progetto ricco di insidie, che i due coniugi non hanno alcuna intenzione di nascondere.
Se infatti la loro posizione rispetto alla politica statunitense è piuttosto evidente, allo stesso tempo la loro scrittura non cede mai all’accusa troppo facile, né all’indulgenza eccessiva nei confronti dei democratici; al contrario, la narrazione si insinua nelle pieghe di quelle ambiguità e le esplicita, da qualunque parte essere arrivino, in nome di una chiarificazione dei tempi che stiamo vivendo, di una restituzione alle parole del loro valore e anche di una venatura per alcuni versi didattica, che però rifugge da qualunque tipo di paternalismo.
“Day 457” e “Day 464” sono due episodi molto diversi che, a parte il caso di Craig e Jay a fare da trait d’union, hanno strutture e scopi completamente differenti tra loro; eppure, in entrambi i casi, non possiamo non notare come l’abile penna degli autori sia in grado di farci riflettere su questioni fondamentali e che vanno oltre la politica in senso stretto, utilizzando una buona dose di autocritica insieme all’accusa verso “i tempi che corrono”.
“[…] we have a duty to represent and protect him from risk.”
“Even if he’s a dirty cop?”
“Rashid’s morality wasn’t on trial here.”
Nell’ottavo episodio l’abilità più sorprendente si trova nella quantità altissima di sottotrame da gestire e nel modo in cui vengono intrecciate, cosa che evidenzia non solo la già nota qualità di storytelling, ma anche un modo tutt’altro che banale di far emergere proprio da questi incroci le più grandi domande, sulla società e sui personaggi stessi. Prendiamo il caso con cui si apre la puntata, quel Clarkson vs. Whitehead che sembra sin da subito configurarsi come una questione di profiling razziale e di abuso di potere da parte della polizia; questa prima impressione, benché sia sfortunatamente un tema ancora troppo presente nelle cronache mondiali, viene invece demolita in favore di una scelta meno scontata, più complessa (la complicità dei due nel furto e piazzamento delle armi rubate per incastrare persone di colore) e che ha il duplice merito di smontare almeno in parte il cliché – il profiling rimane, ma viene sorprendentemente a coinvolgere proprio quel Rashid che sembrava all’inizio vittima dello stesso crimine – e di collegarsi perfettamente ad un’altra storyline, quella di Craig e Jay, che, come un effetto domino, innescherà un’altra fondamentale questione, ossia il conflitto tra la morale di Jay e l’etica del lavoro di Adrian.
Quello che conclude “Day 457” è uno scontro potentissimo, in cui le parti in causa hanno entrambe le loro più che plausibili ragioni, ma che non possono coesistere nello stesso momento – o meglio, possono farlo fino a quando la questione non diventa personale: ed ecco che Jay, coinvolto nella vicenda, non può che entrare in conflitto con chi, sebbene applicando i legittimi interessi dell’azienda per il suo cliente, sta comunque chiudendo un occhio su un caso che ha conseguenze su moltissime persone, in carcere perché incastrate. Difficile prendere parti in questo caso, ma non è nemmeno quello che ci viene chiesto di fare: il rapido scioglimento della questione (ad onor del vero un po’ troppo semplice) in “Day 464” ci dimostra che il caso non è stato messo lì tanto per la sua valenza intrinseca, quanto per le sue conseguenze – il licenziamento di Jay a livello narrativo, la sollevazione della questione morale nell’ufficio e tangenzialmente il ruolo di “salva-campagna-elettorale” per Colin.
I think I’m about to be smart.
Ma l’ottava puntata possiede incredibilmente molto più di questo. Come si diceva all’inizio, l’utilizzo della contemporaneità non viene mai sfruttato in modo brutale, anche perché a volte sarebbe perfino troppo facile; al contrario, le tematiche a noi più vicine vengono usate per illustrarci altri casi e, allo stesso tempo, spiegare in modo molto semplice meccanismi un po’ complessi, come quello della targettizzazione sui social, emersa negli ultimi tempi con l’affair Russia-Elezioni-Facebook. Quello che poteva essere l’assist perfetto contro quest’ultima questione, in una puntata che seguiva quella dell’impeachment e che precedeva quella del famoso “pee-pee tape”, viene intelligentemente evitato e anzi usato per spiegarne meglio il funzionamento attraverso un caso in scala molto più piccola (12 giurati invece dell’America tutta) che illustra in modo perfetto, grazie ad una sempre adorabile Marissa, come sia possibile far arrivare solo determinate notizie – false – a profili specifici e non ad altri. C’è quindi un duplice intento che soggiace alla volontà dei King (oltre a quella, onnipresente, di intrattenerci con un legal drama di altissimo livello): quello di informarci di certe dinamiche, spiegandocele persino nei loro risvolti più contorti e barocchi, ma anche di esplicitare meccanismi che possono non essere alla portata di tutti, e che invece abbiamo l’obbligo assoluto di conoscere.
Coinvolta in questa tattica perversa di un avvocato, Solomon Waltzer, tutt’altro che in fase senile, è anche Diane, che anzi è quella che forse patisce più di tutti i colpi bassi di questo gioco al massacro: l’utilizzo di Kurt e soprattutto il ritorno dal passato di Holly Westfall non possono che scavare ancora più a fondo nell’anima già tormentata della donna, vera e propria protagonista di questa annata. Il suo percorso, che trova nel confronto col marito e nel dialogo con Marissa nella puntata successiva i picchi più alti di questa doppietta, è quello di una persona che sì, farà anche parte di una certa élite, ma che in questo momento incarna la perdita di punti di riferimento di moltissime altre persone, che a prescindere dal loro lavoro si trovano a riflettere esattamente sulle stesse questioni – a che punto siamo arrivati? Quanto siamo caduti in basso? – e che faticano a trovare una risposta; persone che a livello etico mantengono le loro convinzioni (basti pensare al comportamento di Diane nei suoi discorsi con Tully), ma che nei propri pensieri più reconditi vivono momenti di follia in cui scendere per strada e incitare alla ribellione appare come l’unico modo per farsi sentire davvero.
Diane non può farlo, con ogni evidenza, ed è qui che subentra la cosa più interessante della stagione: quel “microdosing”, che micro più non è, va ben al di là del mero effetto comico ed è invece uno dei segnali più forti della crisi dei nostri tempi, proprio perché ad andare in tilt è una donna come Diane Lockhart: una democratica che è riuscita a sposare un repubblicano, e che ciononostante ora sta cedendo sotto il peso di tempi non solo difficili, ma soprattutto ridicoli. Il discorso della donna a Marissa nella nona puntata è forse una delle cose più alte dell’intera stagione, supportata da una sempre eccezionale (ma quest’anno ancora di più) Christine Baranski: la riflessione sul fatto che la caratura di un nemico dia la misura non solo di quella persona, ma anche di chi gli si oppone, è una considerazione amara su questi tempi americani, in cui per demolire una presidenza ci si appella a cose imbarazzanti come un “pee-pee tape” e in cui il livello della discussione è drammaticamente calato ai livelli di una farsa.
[…] How history repeats itself first as tragedy, second as farce, third as porn.
La mancanza di prove certe dell’esistenza di questo video rappresenta per i King (che del nono episodio sono anche scrittori) un punto molto controverso da trattare, ma, come già si diceva, la loro capacità di immettersi proprio in questo genere di difficoltà e di dubbi per sfruttarli a loro vantaggio emerge anche in questo caso: se nel mondo reale la presenza del video non è confermata (anche se voci di corridoio sembrano darla per certa), allo stesso modo viene trattata da loro nella serie. Gli autori sfruttano questa incertezza mettendola in scena con il caso di Dominika Sokolov, che manda in crisi tutti i personaggi: vedere Diane e Ruth negare la verità del video e Julius arrivare al punto di confermarne la veridicità fa capire come Michelle e Robert King non scelgano mai la strada più facile, preferendo a questa un’analisi più precisa di quello che delle persone del genere farebbero in una situazione simile. In particolare, è su Julius che la scrittura si fa ancora più raffinata: un personaggio come lui, che ancora in questa puntata dichiara che un suo rinnovato voto a Trump sarebbe possibile – “dipende dall’avversario” –, risulta tutt’altro che scontato nel momento in cui non solo prende in esame che il video sia vero, ma si mette a completa disposizione per far uscire allo scoperto la Starkey e far così offrire a Dominika una via d’uscita per la sua deportazione.
Alla fine non è poi così chiaro se il video sia vero oppure no; certo, all’FBI nessuno lo ha visto, ma “si basano sulle voci che circolano” per testare le dichiarazioni di Dominika, partendo dunque dall’evidente presupposto che il filmato esista eccome. Il continuo rimbalzo tra verità e falsità, la drammatica ed esagerata enfasi che caratterizza le scene della visione (il Requiem di Mozart, una potente luce gialla ad illuminare i volti di chi guarda, con un ironico riferimento sia alla golden shower che all’indimenticabile valigetta di “Pulp Fiction”), il distacco di Diane – che non assiste mai al video –, rendono la domanda “ma è vero o no?” irrilevante e inutile. Il solo fatto che si stia parlando di questo è segno tangibile dei tempi orribili che stiamo vivendo, e poco importa se l’evento in quanto tale sia accaduto o no. Le cose, sembrano dirci gli autori sul finire dell’episodio, non accenneranno a migliorare: Ruth che mette da parte la copia del filmato “da aprire a ottobre 2020”, ossia a un mese dalle prossime elezioni, è un’immagine che pesa come un macigno sul futuro dell’America, in cui i King prevedono che, di nuovo, a farla da padroni non saranno le ricerche della verità, ma i colpi più bassi e più imbarazzanti. Il giudizio quindi parte da Trump ma si estende all’intera società americana, ormai così profondamente mutata da faticare a riconoscere se stessa e qualunque cosa di valore in cui credere; un’America in crisi, in cui l’unico modo per sopravvivere è seguire la corrente oppure estraniarsi – “Are you still microdosing?” “Nope.”
Al netto di qualche svolta un po’ semplicistica nella storyline di Colin e della sua campagna elettorale, che influenza la risoluzione del caso di Craig in modo un po’ troppo rapido, questi due episodi rappresentano un altro, incredibile picco della serie: questa stagione di The Good Fight non sta sbagliando una puntata e, anche quando ha in mano la possibilità di sferrare colpi bassi, decide di sfruttarli per qualcosa di degno e di bello da vedere, che sappia divertire e far riflettere allo stesso tempo – anche se la materia prima da cui trarre ispirazione è tutto fuorché piacevole.
Voto 2×08: 9
Voto 2×09: 8½