Patrick Melrose non è il vanity project di una star come Benedict Cumberbatch, un prodotto pensato soltanto per rafforzare la sua posizione di virtuoso della recitazione drammatica con un ruolo estremo ed iconico. Se così fosse, la serie non avrebbe inserito un intero episodio in cui il suo prestigioso protagonista non appare mai, e non avrebbe scelto come formato quello di una miniserie da episodi di un’ora, ciascuno adattamento di un intero romanzo del ciclo creato da Edward St. Aubyn.
In mano a una rete diversa, o ad un attore diverso, Patrick Melrose avrebbe probabilmente finito per avere almeno una decina di episodi, se non addirittura diventare una serie da cinque intere stagioni. A rendere lo show rilevante, e a salvarlo dalla diluizione e dalla normalizzazione che poteva spingerlo verso i cliché del prestige drama, sono di certo la voglia di rischiare di Showtime (e la sua volontà di mantenere un contatto con il pubblico che si è conquistata grazie alla terza stagione di Twin Peaks: The Return, sia pure in una coproduzione con Sky) e il chiaro desiderio di Cumberbatch – che in passato ha paragonato il personaggio di Patrick ad Amleto, in termini di desiderabilità del ruolo – di fare della serie qualcosa di più che un mero sfoggio di bravura e duttilità attoriale.
“What other form of self-division was more directly expressive than the androgynous embrace of an injection, one arm locking the needle into the other, enlisting pain into the service of pleasure and forcing pleasure back into the service of pain?”
(Bad News, Edward St. Aubyn)
La presenza di una direzione forte e precisa (anche frutto della produzione esecutiva dello stesso Cumberbatch) oltre che del lavoro eccellente di Nichols nel rielaborare il materiale autobiografico di St. Aubyn e della regia di Berger, contribuiscono a rendere Patrick Melrose qualcosa di più della storia di un antieroe maschio, bianco e privilegiato, come ne abbiamo viste tante.
Prima di tutto perché la serie sceglie con consapevolezza un registro visivo che va in completa controtendenza rispetto al suo argomento: anziché le ambientazioni cupe, le musiche angosciose e la fotografia buia o dai toni freddi che caratterizzano la maggioranza delle produzioni contemporanee che cercano di meritarsi l’aggettivo di drama “di prestigio”, lo show sfoggia luci calde, scenografie sontuose e ricercate, ambienti soleggiati e musiche vivaci, spesso clamorosamente pop.
Una scelta non soltanto legata alla classe sociale di Patrick e al lusso che la contraddistingue, o al periodo storico (dai ’60 ai primi anni 2000) spiccatamente e vivacemente colorato, almeno nell’immaginario dei costumisti televisivi e cinematografici; la scelta di definire il dramma familiare dei Melrose anche attraverso un linguaggio visivo più classicamente associato a storie ben meno inquietanti appare qui come una scelta programmatica, che mira a spiazzare lo spettatore, ma anche a produrre un oggetto che parli un linguaggio seriale più contemporaneo, meno legato agli stilemi dei drama del passato recente.
I colori e la brillantezza visiva ben si associano all’accento eccezionalmente posh sfoggiato da Cumberbatch e dagli altri attori britannici della serie (che compongono davvero un parterre notevole, tra cui vale la pena citare due enormi Hugo Weaving e Jennifer Jason Leigh, nel ruolo dei suoi genitori), che traduce alla lettera in audiovisivo la sofisticata prosa dei romanzi. L’accento e la proprietà di linguaggio sono notoriamente una parte integrante, insieme allo sfarzo e all’attaccamento ai titoli nobiliari, dell’esistenza stessa dell’upper class del Regno Unito, che è in realtà il vero oggetto di studio di Patrick Melrose, ancor più del protagonista titolare della serie.
Parrebbe scontato e anche un po’ banale abbinare la critica sociale verso i ricchi degenerati e snob alla storia di dipendenza e violenza della famiglia Melrose, ma lo è meno di quel che sembra nel momento in cui si analizza la cosa nel contesto della società britannica, una delle poche ancora rimaste saldamente ancorate alla rigida separazione delle classi, a partire proprio da quell’accento che distingue, in modo immediato e inesorabile il ricco dal povero, l’immigrato dall’inglese di nascita, chi ha usufruito di un’educazione di alto livello oppure ha le giuste parentele, o connessioni sociali.
Coloro che circondano Patrick sono “The Last Marxists”, così vengono chiamati nel terzo episodio, ovvero gli unici rimasti al mondo che credono ancora che la classe sociale sia la risposta a qualsiasi domanda, e il loro mondo è un terreno fertile per l’abuso del più debole, per l’umiliazione, per lo sfoggio di amoralità e crudeltà mascherate da sarcasmo e humor sofisticato.
In nessun altro ambiente, probabilmente, gli abusi perpetrati dal padre di Patrick (non solo sul figlio, ma su chiunque lo circondi) sarebbero stati ignorati pur se evidentissimi, scusati e in parte anche ammirati come sfoggio di eccentricità: la stessa natura codipendente e ristretta dell’aristocrazia british che la rende esclusiva e le consente di perpetrarsi, la rende anche impossibile da scalfire nelle sue strette maglie di convenienza, difficile da scandalizzare e anche, intrinsecamente incestuosa, sia pure in modo più metaforico che letterale.
Siamo abituati a immaginare l’abuso e la violenza come prodotti dell’ignoranza e del disagio economico, così come siamo abituati a vedere le storie di droga e di traumi infantili rappresentate attraverso atmosfere livide e dialoghi asciutti, ma Patrick Melrose sovverte queste regole narrative e di messa in scena offrendo un prodotto canonico nel suo tema ma originale nello svolgimento. Nel dispiegarsi della vita del protagonista e dei suoi tentativi di emanciparsi dai fantasmi ereditati, il colore e la luce diventano strumenti inediti per dipingere l’angoscia e l’incapacità di risollevarsi dal trauma, mentre la scrittura e la regia si smarcano da qualsiasi gratuità e compiacimento portando a compimento 5 episodi di un’ora per 5 romanzi, senza dilungarsi né autocelebrarsi.
Queste caratteristiche rendono la serie una gradita eccezione nella schiera di period drama che ruotano attorno alla figura dell’antieroe: nel suo prendersi meno “sul serio” da un punto di vista visivo, nella sua ricerca di un risultato qualitativamente alto nel complesso (anziché perseguire velleitari obiettivi di rivoluzione stilistica o narrativa), Patrick Melrose spicca per godibilità e concretezza. Pur essendo nato per la realizzazione delle ambizioni di una star, è uno show che si mette dalla parte dello spettatore e gli regala cinque ore di spettacolo puro, senza sbavature e portatore di molta più innovazione della maggioranza dei prestige drama di questa stagione seriale.
Voto stagione: 8 ½
Recuperato da poco…bravissima come sempre…;)…