Kidding – 1×02/03 Pusillanimous & Every Pain Needs a Name


Kidding - 1x02/03 Pusillanimous & Every Pain Needs a NameDopo un episodio pilota significativo come “Green Means Go”, era difficile pensare che Kidding potesse mantenere lo stesso livello e la stessa intensità anche per le due puntate successive. La serie creata da Dave Holstein e interpretata da Jim Carrey, però, dimostrando di possedere una continuità qualitativa alta, un impianto formale funzionante e una visione narrativa molto particolare, è riuscita nell’intento.


“Pusillanimous” e “Every Pain Needs a Name”
rispondono alla volontà dello show di approfondire con graduale progressività e altrettanto costante convinzione le linee tematiche suggerite dal primo episodio, amplificando la portata dei contenuti, curando i personaggi appena nati e concentrandosi su un virtuoso equilibrio di sintesi tra generi diversi – la commedia nera, il dramma, la satira e lo studio sociale – e diversi toni espressivi – umorismo, ironia ed empatia: il tutto per veicolare al meglio verso lo spettatore la particolare storia di Jeff Pickles e per raccontarla a fondo da più punti di vista.

La parabola emotiva del personaggio interpretato da Carrey sta, in queste prime fasi, trascinando la maggior parte della narrazione: lo show orbita intorno alla sua magra silhouette, trattandola non solo come la mina vagante pronta ad esplodere o come il personaggio con più peso nell’economia dello show, ma come punto fermo del racconto. Il tracollo emotivo del volto più amato dai bambini della nazione è infatti allo stesso tempo il motore delle vicende ed il perno più agile su cui sviluppare la storia, il nodo da sciogliere per la risoluzione della narrazione e il dramma da tessere per costruirla. La serie si appoggia sul suo protagonista (e sulla prova attoriale di Jim Carrey), concentrando l’obiettivo vicino alla sua figura per descrivere in primis il suo mondo e poi il mondo circostante.

Kidding - 1x02/03 Pusillanimous & Every Pain Needs a NameGli eventi raccontati vibrano di tensioni surreali sotto l’influsso di questo personaggio umano che sembra uscito da una realtà animata: i ladri di macchine restituiscono le auto (ricostruendole) per rispetto nei suoi confronti; i bambini assumono connotati adulti e adottano comportamenti lucidissimi quando interagiscono con il suo umorismo; le persone a lui vicine si spiano reciprocamente progettando fughe, ritorni ed esplosioni clamorose. Allo stesso tempo il personaggio è specchio di un mondo fatto di rassicurazioni e gentilezze ma minato nel profondo da insicurezze e dolore: Jeff Pickles è un insegnante di vita, un agente dell’empatia e della comprensione, ma è anche un’anima rotta da un lutto lancinante e ignorato, sotterrato nelle profondità della mente da un lavoro che non può permettere la tristezza. Raccontando atmosfere particolari e un carattere altrettanto singolare, la serie si rivela quindi dotata di una visione capace di rappresentare sia la grandezza della realtà sociale – dominata dalla commercializzazione dei sentimenti (la tristezza non vende, il dolore non fa audience in prima serata) – sia la miniatura della realtà privata, in cui sono i sentimenti negativi a dominare.

“Pusillanimous” racconta benissimo questi sentimenti e la loro negazione attraverso la messa in scena di dialoghi tra personaggi legati da rapporti inter-famigliari. È nella famiglia, luogo in cui la sincerità dovrebbe essere linguaggio condiviso, che le emozioni parlano una lingua contraffatta, mentono per sopravvivere al dolore della verità e si nascondono per non rivelare le loro vere intenzioni. Attraverso un lessico famigliare fatto di immagini pungenti (una torta che si sfracella per sbaglio, un profilo di marmellata sanguinolenta, una manovella del gas aperta o una bacchetta che provoca scintille) la puntata indaga la famiglia Pickles e i motivi della sua distruzione, affondando il coltello nella carne viva del lutto e del rimosso.

“Every Pain Needs a Name” invece scava in altre direzioni, si stacca dal perimetro domestico per affrontare il dolore su un piano esistenziale più ampio e scopre le possibili evoluzioni di quei sentimenti e il modo in cui possono cambiare nella realtà in cui nascono. L’episodio aggrega i suoi protagonisti nella bolla di una sofferenza condivisa in cui tutti si interrogano riguardo alle proprie azioni, scoprendosi capaci di confessarsi ad altri, trovando un sollievo psicologico (e di conseguenza anche fisico) nell’empatia e rivelandosi frangibili: sia le persone che cercano un riscatto, sia quelle che hanno perso la speranza, sia i figli che cercano di essere visti per ciò che sono, sia i genitori che si scoprono esseri senza nome. Perché se esiste un modo per chiamare una donna che ha perso il marito, un modo per chiamare un uomo che ha perso la moglie e un modo per chiamare un bambino che ha perso i propri genitori, non ne esiste uno per chiamare un genitore che ha perso il figlio: anche se ogni dolore ha bisogno di un nome, questo è un dolore che non lo possiede.

Kidding - 1x02/03 Pusillanimous & Every Pain Needs a NameQuesti due episodi si concentrano quindi sul personaggio di Jeff, lo fotografano nei suoi piccoli comportamenti e lo inquadrano sia nelle inconsapevoli gesta eroiche sia nei momenti di delirio controllato. Poi compiono grandi giri speculativi, in cui ragionano attraverso parafrasi, metafore, digressioni periferiche che toccano l’intimità di altri personaggi, e infine tornano a lui. È un modo di raccontare che si dilata e si restringe a ripetizione, dal grande al piccolo e dal piccolo al grande, come in un movimento cardiaco che spinge sangue e vita in ogni angolo raggiungibile. La storia di Kidding già al suo inizio pulsa con violenza e non sembra volere fermare l’incursione nel mondo emotivo dei suoi personaggi distrutti e bellissimi; il suo racconto è lucido ma commosso di fronte alle sensazioni più profonde, la sua voce è misurata per narrare sentimenti senza misura, i suoi occhi sono puntati su personaggi che si sentono invisibili.

La serie non cerca di confezionare uno spettacolo in grado di piacere a tavolino, non costruisce una narrativa superficialmente accattivante per accalappiare lo spettatore con furbizia e guadagnarsi l’attenzione nel vasto panorama seriale. Piuttosto, come dimostrano con forza questi due episodi, cerca di indagare un microcosmo molto caratteristico attraverso una veste comunicativa particolarmente connotata – spinta anche dalla supervisione autoriale di un grande regista come Gondry. Il risultato che emerge da questi due episodi e dalla loro somma, infatti, è un prodotto di marcata personalità, che affronta temi universali come il dolore, la morte e il richiamo alla vita, spiando dalla fessura dell’intimità e sviscerando i lati più nascosti della psicologia di personaggi che scherzano affranti e piangono di nascosto sotto il colorato rumore delle risate.

Voto 1×02: 8
Voto 1×03: 8

Nota:

In questo video viene illustrato il dietro le quinte della scena più bella del terzo episodio, in cui (con un one take) è sintetizzato il passato della vita di Shaina (interpretata da Riki Lindhome).

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Informazioni su Leonardo Strano

Convinto che credere che le serie tv siano i nuovi romanzi feuilleton sia una scusa abbastanza valida per guardarne a destra e a manca, pochi momenti fa della sua vita ha deciso di provare a scriverci sopra. Nelle pause legge, guarda film; poi forse, a volte, se ha voglia, studia anche.

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