A 60 minuti dal season finale, Simon e Overmyer non perdono occasione per lasciarci con l’amaro in bocca, che in Treme vuol dire essenzialmente rabbia. E se Don’t You Leave Me Here è quasi una puntata di passaggio, è in Poor Man’s Paradise che si gettano le premesse per un palpitante finale. Una doppietta soddisfacente, sia dal punto di vista musicale che da quello drammatico.
3×08 – Don’t You Leave Me Here
In questo episodio, scritto da Eric Overmyer, troviamo tutto ciò che rende grande Treme: musica live, trama, approfondimento psicologico dei personaggi e riferimenti all’attualità. Tutti gli ingredienti sono, come sempre, ottimamente e sapientemente dosati, manco fossimo al Desautel’s. Altro grande pregio dello show è il fatto che non si ha mai un’apertura e chiusura contemporanea delle storie dei vari personaggi: il trionfo di uno spesso coincide con il fallimento di un altro.
“I don’t think you’re gonna be happy getting good at something you don’t love”
L’esperienza di un writing team rodato e maturo, così come l’utilizzo di buoni registi e di un cast affermato, sono elementi chiave del successo dello show. Il tutto non sarebbe possibile se Simon & Co. perdessero di vista l’obiettivo di una narrazione così “speciale”, in cui è necessario che in certi momenti la musica parli da sola. È un diritto e un dovere dettato dal contesto geografico e storico della trama, in un mix di tradizione e innovazione di generi musicali. Un ottimo esempio di melting pot è la presenza di Sonny Landreth in studio con Annie, una vera leggenda della slide guitar e del blues in generale, che non rinuncia a suoni e approcci moderni (attitudine rilevabile, per esempio, in questa performance al Crossroads Festival di Eric Clapton). L’attenzione all’aspetto musicale rivela come sempre una cristallina meticolosità, come nel caso di Antoine. L’evoluzione costante e la crescita tecnica sono alla base del progresso musicale per chiunque: Batiste lo sa bene. Il modo migliore per studiare un nuovo genere? Suonare sui dischi dei propri idoli. La storia del blues (e del jazz) parla chiaro: allenare l’orecchio, per capire così i tricks delle vecchie volpi, è l’unico modo per riuscire a suonare certe cose.
Le storie di speranza e di successo, in questo finire di stagione, vanno pesantemente a cozzare con le cadute più clamorose. Annie e Janette sono infatti all’apice delle rispettive carriere, e da un punto di vista strettamente lavorativo, è un momento d’oro per entrambe: hanno saputo voltare pagina e cambiare passo, con grande velocità e intraprendenza. Non può naturalmente essere un percorso privo di ombre, emotive soprattutto. Davis si trova, più o meno consapevolmente, al centro di tutto questo. Per Janette, la spensieratezza del personaggio di Steve Zahn è qualcosa che le è sempre mancato a N.Y. Annie, d’altra parte, è ormai stanca proprio di questi aspetti caratteriali di Davis, che svogliato fa di tutto per rovinare un rapporto già appannato dal crescente successo della violinista. Un altro grande successo è l’ormai completa redenzione di Sonny, testimoniata dalla più drastica e “sacrilega” azione che un musicista può compiere: la vendita di tutta l’attrezzatura (a parte la Danelectro che – confermo anch’io – ha fatto bene a tenersi). La proposta di matrimonio a Linh è la conferma finale dell’avvenuta trasformazione.
In discesa verso momenti sempre più bui sono invece Davis e Albert. Il primo, per sua stessa ammissione, si trova a un frustrante punto morto, musicalmente ed emotivamente. Anche per figure come la sua, le difficoltà a un certo punto superano l’ingenuità adolescenziale residua. È in parte un’evoluzione rispetto al Davis che conosciamo, che notoriamente schivava le responsabilità, spinto dal più generico dei carpe diem. Lo sfogo con Mimi è emblematico in questo senso. Il cinismo della zia, per quanto ispirato da alcolismo cronico, sarà utile al dj per capire come riscrivere la sua vita il giorno in cui la sua relazione con Annie finirà. Prevedibilmente molto presto.
LaDonna occupa una zona grigia: il bar tutto sommato è tornato a funzionare anche grazie agli Indians e ha conosciuto meglio Albert, con cui si sente subito abbastanza al sicuro. I dialoghi tra i due rappresentano molto più di ciò che si vede. Si tratta infatti di personaggi molto affini, per orgoglio e forza d’animo, dal momento che entrambi fanno fatica a rivolgersi a terzi in caso di bisogno. L’angoscia con cui LaDonna vive le minacce arriva quasi senza filtri allo spettatore: merito di un’attenta regia e di un’ottima prestazione di Khandi Alexander. L’attrice si è sempre dimostrata all’altezza della situazione, contribuendo alla validità d’insieme. Come è evidente anche nell’episodio successivo.
3×09 – Poor Man’s Paradise
“F**k the music industry [..] I piss on its grave”
Rispetto a Don’t You Leave Me Here, in Poor Man’s Paradise monta costante un sentimento di rabbia di fronte alle ingiustizie subite dai Nostri. Rabbia e frustrazione sono i veri pilastri emotivi di questo episodio, aspetti che coinvolgono essenzialmente Davis, Janette e LaDonna (vista la bontà del prodotto, si tratta di sensazioni che si traferiscono immediatamente allo spettatore). Davis è fuori controllo, ora che ha perso la possibilità di restituire anni di maltolto alle leggende locali. I meccanismi malati della produzione discografica lo portano dritto all’autodistruzione (in parte alcolica) e all’allontanamento da Annie. Il giovane dj e musicista non ha tutti i torti: basti guardare il doppio risvolto della registrazione del pezzo “This City”, originariamente scritto da Harley Watt (aka Steve Earle). Il manager di Annie la spinge a registrare il pezzo del defunto amico come un tributo; è tuttavia evidente il cinismo che spinge il businessman a piazzare la sua royalty sul miglior brano della band.
Janette, invece, fa i conti con un ristorante che va a gonfie vele, ma non spinto dai prodotti che più ama. Almeno, ha trovato un cameriere brillante, Derek, specializzato nella ricerca del blogger o del critico. L’affinità professionale tra i due è tra le migliori cose viste ultimamente nella storyline di Janette. Quanto a LaDonna, che il destino di Gigi’s fosse segnato lo si era praticamente già capito dai primi fiammiferi e dalle minacce crescenti. La prestazione di Khandi Alexander, anche in questo caso, è decisamente brillante, e l’alchimia con Clarke Peters è evidente: i due fanno scintille quando recitano insieme.
Siamo ormai lontani dall’uragano Katrina e certe cose ora si possono vedere più chiaramente. È un momento delicato: se nelle immediatezze del disastro, i cittadini potevano tutto sommato aspettare conferme o aiuti – con la scusa di pretesti tecnico/logistici – ora è il momento di fare sul serio. Non è più un discorso rimandabile, la popolazione ha bisogno di concretezza e di verità: sugli abusi della polizia da un lato, su quelli dell’edilizia dall’altro. Un discorso simile, a cavallo tra possibilità future e problemi presenti, lo fa Batiste con un’allieva particolarmente assente. Quest’ultima, di fronte all’ennesima dichiarazione di riconosciute potenzialità musicali, manifesta un cinismo e un pragmatismo tipici di chi è cresciuto troppo in fretta (come nel suo caso). La ragazza, infatti, sottolinea l’importanza non del potenziale (che, per definizione, è legato ad una manifestazione di fenomeni futuri), ma di ciò che un individuo ha da offrire nel presente, ora che ce n’è veramente bisogno. Il pragmatismo prevale su tutto, sui progetti futuri e anche sulle prospettive artistiche di molti ragazzi.
Treme vola verso il season finale di una grande stagione. Vedremo come Simon & Overmyer decideranno di districare le principali questioni in sospeso, in un momento particolarmente turbolento per la città e per i suoi protagonisti.
Il futuro presenta insidie per tutti a New Orleans.
Dopotutto:
“This is a great city for music, maybe it’s the best in the world. But it’s a small stage with a low ceiling”
Voto complessivo: 9