Se la scorsa stagione si legava metaforicamente ad una lenta e cupa discesa “infernale”, l’esordio di questa settima e ultima annata ha le connotazioni di un lungo purgatorio, attraverso cui scontare le proprie colpe prima di accedere ad un agognato paradiso.
Dopo due episodi in cui il nostro protagonista ci è stato presentato come imprigionato in un “dinamico” immobilismo, bloccato da una forza centripeta che lo richiamava verso un comodo annullamento della realtà, con questo Field Trip assistiamo all’atto finale di quella parabola discendente che lo ha portato fin qui: una volta toccato il fondo, però, la spinta per risalire pare ottenere una forza più intensa. L’aria che entra attraverso la metaforica porta abbattuta è ancora gelida, ma adesso Don è pronto a compiere un primo passo al di là del confine in cui si era rifugiato.
I’m walking around in a cloud of “no”.
Seppur costruita sulle migliori intenzioni, la sorpresa di Don a Megan si conclude con l’ennesima lite tra i due. L’esagerata reazione della donna trova giustificazione in una “disperazione” che rompe gli argini e si manifesta in tutta la sua veemenza; Megan non riesce più a credere in niente: nel suo talento, nella buona fede del marito (e dell’agente), nel suo stesso matrimonio. Rigira il problema e lo allontana da sé, spostandolo sul loro rapporto, come se la causa di tutti i suoi mali fosse imputabile a quel velo di infelicità che ricopre il loro matrimonio. Nella bugia di Don vede l’ennesima dimostrazione di quanto, dopo tutti questi anni, lui ancora non la conosca; non riesce a comprendere – come ha fatto invece Sally durante lo scorso episodio – che per Don ci sono argomenti difficili da affrontare, perché se condivisi diventerebbero reali, cominciando a ferire sul serio. Non averle parlato di ciò che è successo in agenzia non è una semplice bugia, né tantomeno la dimostrazione della fragilità del loro matrimonio – per questo ci sono altre mille opzioni più valide –, ma solo un vano tentativo per indagare dentro se stessi da soli e in silenzio, perché il problema è dentro e non fuori. Don sa cosa vuole, ma non sa ancora bene come ottenerlo, e lungo il tragitto qualsiasi tipo di confronto l’avrebbe distratto dal fulcro della questione: riprendere contatto con se stesso. Per quanto sia instabile e complesso, il matrimonio con Megan è però una delle cose che Don “deve” far funzionare per allontanare da sé il fantasma del fallimento, e nel momento in cui si rende conto di poter perdere anche lei, inaspettatamente, scatta qualcosa che lo sprona ad agire concretamente.
I know how I want you to see me.
Donald Draper è come bloccato nell’Hashigakari – il ponte che per gli attori del Teatro Nō giapponese simboleggia il rituale di passaggio dalla fisicità (dei camerini) alla divinità (della scena) –, in attesa di trovare il coraggio di andare oltre e mostrarsi finalmente “al pubblico” nella pienezza della sua essenza. Don è alla ricerca di un modo per accettare pienamente la propria dualità, e sa che per farlo non può andare oltre se stesso, operando un cambiamento radicale, ma deve scendere nella profondità della sua anima e cercare di ricucire la frammentazione del suo “io” secondo un’armonia che parte dall’accettazione dell’altra faccia della medaglia: Don tende la mano a Dick, e lo porta in viaggio con sé. Per ottenere ciò, ha bisogno di riprendere in mano la vita che ha distrutto, e ricomporla, pezzo dopo pezzo, secondo un ordine nuovo. Sono lievi, ma efficaci, i frammenti che ci lasciano cogliere il cambiamento di sfumatura del nuovo approccio di Mr. Draper. Per esempio, durante l’incontro con Dave Wooster, all’apparire dell’aitante Emily Arnett le espressioni di Don ricordano la cara vecchia volpe che conosciamo: il sorriso beffardo, lo sguardo penetrante dell’esploratore curioso del mondo (femminile), alla ricerca di attimi concreti da vivere. Quando nel frame successivo lo vediamo bussare ad una camera d’albergo, non possiamo far altro che cercare con la coda dell’occhio quell’ascensore che dovrebbe essere accanto alla camera della scaltra biondina: dietro alla porta, però, c’è solo Roger. In questa, come in altre occasioni, abbiamo come l’impressione che Don agisca in completo disaccordo con ciò che avrebbe fatto “prima”: è chiaro che fa uno sforzo immane, ma è proprio in questa risoluta fatica che si annida la positiva progettualità delle sue scelte.
What are you doing here?
Il primo e più importante passo da compiere è ritornare a lavoro. L’attesa con cui Don vive questo momento è straziante: nella sua immobilità riusciamo a percepire quel vortice interiore che lo scuote, con tutta la gravosità del passo che sta per compiere. Le immagini che, in alternato, si sovrappongono tra proiezioni mentali e flashforward, alimentano ancora di più l’eloquente armonia della sequenza, arricchita ulteriormente dallo scandire della musica e dal dettaglio della lancetta dei secondi che scorre sul fondo nero di un orologio, interrogato insistentemente. Una volta dentro, però, si rende conto di come al peggio non ci sia mai fine: essere costretto a scontrarsi con ripetuti e scostanti “Che ci fai qui?” lo disorienta ancora di più del fatto di non trovare una collocazione spaziale in quell’ambiente che per anni l’ha definito. Anche relegato nella stanza dei creativi, tuttavia, non smette di esercitare quell’innato potere attrattivo suscitato solo con la sua presenza che conserva inalterato, come fosse scolpito sulla sua pelle. Non a caso Lou, nel suo iroso dialogo con Cutler, lo paragona a Longfellow Deeds, il protagonista del celeberrimo film di Capra È arrivata la felicità, sottolineando, involontariamente o meno, la capacità di Don – come di Deeds – di catalizzare su di sé l’attenzione, nel bene e nel male: ed è di questo che Lou ha veramente paura.
Tra l’affettata diplomazia di Joan e la freddezza acida e glaciale di una Peggy in combutta con il mondo, Roger è l’unico a vedere chiaramente come stanno le cose e allo stesso tempo a trovare un punto di equilibrio tra il risentimento, l’affetto e il bene dell’agenzia: pragmatico e leale, puntando l’accento sulla competitiva genialità di Mr Draper gli riapre le porte della mutata SC&P. Le condizioni poste, però, non sono per niente facili da gestire e la lentezza con cui l’inquadratura si stringe sul volto di Don mentre legge i termini dell’accordo ha dell’angosciante. Non ci saremmo mai aspettati quel rapido “Ok”, sofferto e accomodante, ma guardandolo negli occhi e decifrando la risoluta accettazione di quel sorriso serrato in cui si chiudono le sue labbra, non possiamo non comprendere quanto ne avesse bisogno: non si può scappare per sempre dal proprio nemico, prima o poi occorre tornare dentro e affrontarlo direttamente. Don ha varcato la soglia al di là dall’inferno ed è entrato pienamente in quel limbo che lo separa dalla rinascita, alla ricerca della prossima porta da aprire.
I thought they were the reward.
Anche Betty si scontra con il cambiamento: quello dei propri figli, dettato dalla crescita, e quello di Francine in cerca di una ricompensa personale. Il suo ancorarsi a valori, definiti ormai old-fashioned, è l’unica via per restare in coerenza con se stessa e perpetrare fino in fondo la scelta di essere, solo, moglie e madre. Quanto sia labile la risolutezza di questa scelta è oltremodo evidente dalla reazione esagerata che ha nei confronti del piccolo Bobby, colpevole di un errore innocente: c’è tanto di Don nella sua mortificazione, e in quegli occhioni che si chiedono come sia possibile ferire a tal punto una donna senza averne l’intenzione. Sentire di non essere amata è per l’ex Mrs. Draper l’endemica conseguenza di una vita gestita con lo scopo di presidiare un metaforico piedistallo, il quale, adesso, le si mostra in tutta la sua reale inconsistenza. Come per Don, anche per Betty il problema è dentro e non fuori, ma lei è troppo egocentrica per accorgersene: non cambierebbe mai niente di sé, ma sarebbe pronta a cambiare tutto intorno a sé.
In definitiva, Field Trip, nel suo tenue e fulgido splendore, rappresenta un importante crocevia narrativo che dà il via al pieno evolversi dell’ultimo capitolo di uno spettacolo che vorremmo non finisse mai.
Voto: 9
Devo dire che non mi sentirei di dare un voto troppo alto a questa puntata. Il rapporto tra Megan e Don dovrebbe esser arrivato al capolinea. Non perché la coppia insieme non funziona, ma perché lei non riesce a capirlo e lui non riesce più a fidarsi.
Insomma, vero che lui sta facendo il suo percorso, ma vero anche che non vuole essere a LA con lei.
Lui deve riprendere il rapporto con se stesso, ma a spese del suo matrimonio. Quindi, perché non accettare il fatto che il matrimonio in realtà è fallito nel momento in cui ha ricominciato a tradirla di nuovo? E così poter ricominciare da capo?
Riguardo l’aria da cagnolino bastonato nel vedere le condizioni poste dai soci, io invece mi aspettavo proprio quell’ok frettoloso. Non è il Don che può pretendere condizioni, ma il Don che per ritornare a lavorare deve accettare ciò che gli viene imposto senza far troppe domande.
Betty per quanto mi riguarda rimane la donna che, tradita dal marito e adorata da un uomo che in realtà non vuole, sfoga le proprie frustazioni sui figli. E saranno loro poi a dover pagare le conseguenze.
voto puntata:7.
episodio molto bello di quella che è la serie migliore degli ultimi anni. Voto: 9.
Amo MM e per questo non lo perdono per come sta trattando Peggy!! La puntata è un capolavoro, ogni inquadratura un piccolo quadro, però adesso ridateci Peggy, vi prego!!