Giunti alla terza stagione, sembra quasi superfluo tessere le lodi di quello che è ormai a tutti gli effetti considerato, da pubblico e critica, uno dei migliori show in circolazione – trascendendo la mera etichetta di “serie animata che ha per protagonista un cavallo”.
BoJack Horseman è riuscito infatti a fondere in maniera impeccabile alcuni temi cari al cosiddetto quality drama della Golden age – come la frustrante ricerca della felicità e del proprio posto nel mondo – con una comicità surreale che spazia dalla satira più tagliente ai giochi di parole più stupidi, dando così vita a un prodotto unico nel panorama seriale – animato e non.
E a ben vedere è proprio nell’innata capacità di Raphael Bob-Waksberg e del suo team di far convivere elementi e registri apparentemente inconciliabili – proprio come umani e animali convivono nell’universo di BoJack – che si nasconde il segreto del successo dello show: BoJack Horseman fa dell’agrodolce la sua cifra stilistica più spiccata, trovando nel difficile equilibrio tra leggerezza e gravitas la sua dimensione. Pur senza spezzare tale delicato equilibrio, questa nuova manciata di episodi si addentra più in profondità in territori oscuri, al fine di portare il suo protagonista a un punto di rottura definitivo – un’esigenza quanto mai necessaria onde evitare il rischio della stagnazione del personaggio, soprattutto in vista del rinnovo per una quarta stagione.
Questa terza annata infatti ha visto BoJack continuare a ferire se stesso e le persone a lui care, fino a rendersi indirettamente responsabile della morte di Sarah Lynn: come sottolineato dallo stesso Waksberg, l’impressione di ripetitività che certe dinamiche sembrano comunicare – e che potrebbero legittimamente essere interpretate nell’ottica di una mancanza di idee – è consapevolmente sfruttataper comunicare l’incapacità di BoJack di spezzare il cerchio di (auto)distruzione in cui si trova intrappolato: ecco quindi che la circolarità narrativa diviene funzionale al racconto, in cui sia le similitudini che le varianti assumono un significato fondamentale, evidenziando come il percorso di redenzione di BoJack, ammesso che sia possibile, sia ben lontano dal concretizzarsi. Se nelle passate stagioni la furia distruttiva di BoJack aveva coinvolto persone appartenenti al suo passato, lasciandogli quindi in fin dei conti una casa e delle persone da cui tornare, quest’anno lo show alza la posta in gioco, approfondendo i conflitti con Todd, Princess Carolyn e Diane, fino a giungere al fallimentare giro di scuse e all’overdose di Sarah, in un devastante climax che va inevitabilmente a segnare uno spartiacque nel percorso di BoJack, come sembra lasciar intendere il commovente finale.
Dal punto di vista più propriamente strutturale Waksberg torna a fare affidamento sul rodato mix di narrazione orizzontale e verticale, costruendo l’intera stagione attorno alla corsa agli Oscar di BoJack ma al tempo stesso facendo prendere al racconto – forse ancor più che in passato – continue deviazioni, che si traducono nella presenza di tradizionali episodi standalone. È chiaro fin da subito, sia a BoJack che allo spettatore, che l’eventuale (e immeritata) vittoria dell’Oscar non avrebbe mai avuto l’effetto catartico sperato; non è quindi un caso che questa storyline resti spesso sullo sfondo, pur funzionando ottimamente sia come serbatoio inesauribile di gag su Hollywoo(d) – una su tutte: Todd e Mr. Peanutbutter che riscrivono le nomination –, che come catalizzatore del disagio esistenziale di BoJack.
Anche in questo caso, quello che a prima vista potrebbe essere considerato un passo indietro per una serie animata che punta a smarcarsi dai canoni tradizionali del genere, si rivela in realtà una scelta che non solo permette allo show di sprigionare tutta la sua carica sperimentale, ma che soprattutto è, di nuovo, interamente funzionale all’approfondimento dei personaggi e dei loro rapporti. In quest’ottica è perfettamente comprensibile che uno dei momenti più alti della stagione, e della serie in generale, sia costituito proprio da quel quarto episodio ambientato sott’acqua (“Fish Out Of Water”), in cui la promozione di Secretariat diviene un mero pretesto per dar vita a un personalissimo omaggio al cinema delle origini e a quello di Sofia Coppola (ma, se vogliamo, anche a SpongeBob), in cui il perenne senso di inadeguatezza del protagonista e il desiderio di instaurare rapporti sinceri con le persone che lo circondano assumono un’inedita forza, derivante proprio dalla straniante cornice subacquea. Allo stesso modo “Brrap Brrap Pew Pew”, un episodio in buona parte slegato dalla narrazione principale, dà vita a una perfetta combinazione di satira, riferimenti pop e evoluzione del personaggio (in questo caso Diane), riuscendo in un colpo solo a mettere alla berlina certe dinamiche dello showbusiness e a parlare di un tema delicato come l’aborto in un modo molto più sincero e realistico di quanto sarebbe lecito aspettarsi da un “cartone animato”.
Se la satira spietata trova un diretto precedente nelle altre serie animate per adulti, ciò che rende unico lo show di Waksberg è proprio la capacità di tratteggiare dei personaggi incredibilmente tridimensionali (no pun intended), e proprio per questo difficili da inquadrare: il rapporto tra Diane e Mr Peanutbutter, la vita sentimentale e professionale di Princess Carolyn e l’identità sessuale di Todd non solo si distanziano dai tracciati prestabiliti a cui anni di televisione ci hanno abituato, ma si pongono come percorsi in divenire, di cui non viene fornita alcuna certezza circa l’esito. Tutti i personaggi di BoJack Horseman, a partire dal suo protagonista, sono ancora alla ricerca del loro posto del mondo e la scrittura fa un lavoro encomiabile, evitando di suggerire allo spettatore una chiave di lettura univoca utile a prevederne la destinazione.
Non sappiamo se la prossima stagione sarà quella della redenzione e della catarsi per BoJack e gli altri; quel che è certo è che, pur non potendo più contare sull’elemento di novità delle prime due annate (da molti recuperate insieme), ad oggi la serie di Netflix non sembra aver perso neanche un po’ della sua carica sperimentale e della qualità della scrittura che l’hanno resa una delle serie più divertenti e malinconiche della tv.
Voto stagione: 8/9
Serie MERAVIGLIOSA
Grandeeeeeee pensavo di essere fra i pochi estimatori del cavallo loser, invece sto scoprendo che siamo in tanti. Anche io non la considero piu’ un “cartone animato” ma una reale serie drama/sitcom con personaggi di spessore e sarcasmo di qualita’.
Ottima anche la recensione di cui concordo il voto finale 🙂
Stagione bellissima!
Più amara delle precedenti, Ma con insetti comici brillanti.
Faccio notare la chicca di Bojack che porta in limousine George Clooney e l sua publisher usando un paio di baffetti come travestimento. Quando si fa riconoscere, se li strappa, causando la sorpresa della publisher “Bojack?”. Ecco io ci ho visto un omaggio a Una pallottola spuntata 2 1/2 e alla scena dei Mariachi. Bellissimo! 🙂
Quello che stupisce di Bojack Horseman è quanto vero e reale possa essere.
Non riesco a capire come una serie disegnata come questa possa rappresentare la realtà meglio di qualunque altra serie o film recitati da persone in carne ed ossa.
A seconda del tipo di genere nella quale una serie viene inquadrata (comedy, drama, dramedy, horroe ecc.) si ricerca il pathos nello spettatore, in Bojack no, niente viene fatto con l’intento di suscitare un certo tipo di reazione nello spettatore, ma semplicemente mostrando come le vanno le cose nella vita reale.
Forse solo Mad Men si avvicinava a quello livello di introspezione, ma non era ancora abbastanza.
A mio avviso è un capolavoro.