Proprio quando i prodotti legati al mondo dei supereroi sembravano essere giunti a un punto di saturazione sia sul grande che sul piccolo schermo, Legion porta una ventata di freschezza all’interno del genere, presentandosi al pubblico con un pilot a dir poco coraggioso e sorprendente.
Basato sull’omonimo personaggio dei fumetti Marvel, Legion rappresenta il primo tentativo da parte della Fox di portare in tv l’universo dei mutanti di cui detiene i diritti, ponendo conseguentemente lo show al di fuori del tentacolare Marvel Cinematic Universe. Nonostante sulla carta i legami diretti con la saga cinematografica degli X-Men non manchino (soprattutto considerando il rapporto di parentela che legherebbe il protagonista a uno dei personaggi cardine dei film), il pilot, brillantemente scritto e diretto da Noah Hawley (Fargo), creatore e showrunner della serie, si distingue per l’audacia con cui impone uno stile e un linguaggio del tutto autonomo e originale rispetto a quanto visto fino ad ora nell’ambito dei cinecomic e delle comic series.
He is telling the truth as he knows it Hawley in poco più di un’ora ci racconta quella che in fin dei conti non è altro che l’inizio dell’origin story di Legion (David Haller, interpretato da Dan Stevens), della difficile convivenza con i suoi poteri e della progressiva acquisizione di consapevolezza del suo potenziale, riuscendo però nella difficile impresa di infondere nuova linfa vitale al genere attraverso la trasformazione di uno dei suoi più classici topoi (il superpotere che viene scambiato per malattia mentale) nella matrice che va a improntare la struttura del racconto e la sua messa in scena. Il pilot di Legion prende così la forma di un viaggio surreale e lisergico nella mente del suo protagonista, in cui ricordi, allucinazioni e visioni si susseguono senza soluzione di continuità, impedendo allo spettatore di distinguere gli uni dalle altre e di comprendere fino in fondo la natura di ciò che vede. Haller assume infatti a tutti gli effetti il ruolo di narratore inaffidabile del racconto, ed è proprio la sua percezione alterata e parziale della realtà a costituire il punto di accesso privilegiato agli eventi mostrati, che si dipanano su tre diversi piani temporali (flashback della giovinezza di David, la permanenza in ospedale e l’interrogatorio), rivelando il loro carattere in maniera progressiva e ambigua. Si tratta chiaramente di un approccio che ha precedenti illustri e recenti nella narrazione seriale e non – il confronto con Mr. Robot è pressoché inevitabile – ma che in questo caso colpisce in particolare per il modo in cui va a porsi come vero e proprio biglietto da visita dello show.
Uno dei maggiori pregi dell’episodio consiste infatti nel riuscire a scansare abilmente le problematiche che di solito affliggono i capitoli d’apertura di una serie: al contrario della maggior parte dei pilot, Legionnon ha nessuna fretta di far capire tutto e subito allo spettatore, si diverte anzi a confonderlo e a farlo dubitare – proprio come il suo protagonista – di tutto ciò che vede, per poi fornirgli gradualmente (e solo in parte) delle risposte. Mettendo in pratica la regola aurea dello “show, don’t tell” Hawley riduce all’osso i dialoghi esplicativi, articolando il racconto tramite soluzioni visive in grado di comunicarne efficacemente gli snodi cruciali. Per farlo l’autore sfrutta a pieno le potenzialità che derivano dall’assunzione del punto di vista di David, mettendo a punto un ventaglio amplissimo di soluzioni registiche che, nonostante qualche manierismo, risultano sempre funzionali all’intreccio: montaggi musicali, sequenze di ballo, sovrapposizione di linee temporali, movimenti di camera acrobatici, esplosioni al rallenty e piani sequenza si susseguono senza sosta, accompagnati da una messa in scena altrettanto curata e straniante, che mischia consapevolmente l’estetica anni Sessanta fatta di costumi vintage e una palette di colori accesi con elementi moderni.
Anche la scrittura non è da meno: a emergere è il gusto per il surreale e il grottesco di Hawley che abbiamo già avuto modo di apprezzare in Fargo, il quale contribuisce ad alleggerire il tono prevalentemente drama dello show senza per questo andare ad intaccare la credibilità del racconto e il coinvolgimento emotivo dello spettatore, soprattutto grazie alle ottime performance del cast – in primis Dan Stevens, ma anche Rachel Keller (che interpreta Sydney “Syd” Barrett) e Aubrey Plaza (Lenny “Cornflakes” Busker). Nonostante il minor spazio riservato loro, le due figure femminili – entrambe ricoverate nell’ospedale psichiatrico insieme a David – risultano già ben delineate e ricche di potenziale; in particolare Syd, oltre a dar voce al sostrato tematico dello show in un bel monologo sull’accettazione e valorizzazione di ciò che devia dalla norma (fondamentale nella saga degli X-Men), incarna un’interessante inversione dello stereotipo della damsel in distressche non può non colpire positivamente.
Giunti alla fine di “Chapter 1”, malgrado i molti punti ancora da chiarire, a delinearsi è un intreccio per certi versi convenzionale, il quale però, come abbiamo visto, fa da contraltare a una messa in scena personalissima, che ha tutte le carte in regola per rivoluzionare dall’interno un genere estremamente codificato come quello supereroistico.
Ma che bella sorpresa! Coraggioso e raffinato con quel sapore retrò al gusto di Arancia Meccanica. Ottima regia e bravi interpreti a cominciare dall’ironico Stevens che ricorda un giovane Ben Stiller e, udite udite, imminente Bestia disneyana.
Ci sono tutti i presupposti per una grande fiction. E’ tutto frammentato e sovrapposto – i ricordi, i piani temporali, i dialoghi, i piani di realtà-, ma i frammenti compongono un insieme estremamente avvincente, come se gli spazi tra un pezzo e l’altro rendessero il puzzle ancora più affascinante. La messa in scena mi è parsa psichedelica e raffinata, ibrida l’estetica avveniristica con dettagli retrò. Il ritmo è incalzante, pieno di invenzioni, senza tempi morti. Se la serie mantiene questo livello, si candida ad essere una delle novità migliori di questo 2017.
E quando uno pensa che sui super eroi (ma direi anche più in generale all’interno della serialità televisiva) sia stato detto tutto, ecco che compare questo gioiellino di “Legion”. Davvero una piacevole sorpresa, anche io vi ho visto tanto di Arancia Meccanica, con un delizioso retrogusto hold british . Ottime premesse, senza ombra di dubbio.
Oserei dire “normale routine” per Hawley.
Gustosissimo antipasto nell’attesa della S3 di Fargo.
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Ma che bella sorpresa! Coraggioso e raffinato con quel sapore retrò al gusto di Arancia Meccanica. Ottima regia e bravi interpreti a cominciare dall’ironico Stevens che ricorda un giovane Ben Stiller e, udite udite, imminente Bestia disneyana.
Molto divertente. Dan Stevens irriconoscibile, dai tempi di Downton Abbey.
Ci sono tutti i presupposti per una grande fiction. E’ tutto frammentato e sovrapposto – i ricordi, i piani temporali, i dialoghi, i piani di realtà-, ma i frammenti compongono un insieme estremamente avvincente, come se gli spazi tra un pezzo e l’altro rendessero il puzzle ancora più affascinante. La messa in scena mi è parsa psichedelica e raffinata, ibrida l’estetica avveniristica con dettagli retrò. Il ritmo è incalzante, pieno di invenzioni, senza tempi morti. Se la serie mantiene questo livello, si candida ad essere una delle novità migliori di questo 2017.
E quando uno pensa che sui super eroi (ma direi anche più in generale all’interno della serialità televisiva) sia stato detto tutto, ecco che compare questo gioiellino di “Legion”. Davvero una piacevole sorpresa, anche io vi ho visto tanto di Arancia Meccanica, con un delizioso retrogusto hold british . Ottime premesse, senza ombra di dubbio.
Oserei dire “normale routine” per Hawley.
Gustosissimo antipasto nell’attesa della S3 di Fargo.