Quando si era parlato della possibilità di introdurre le scorse elezioni americane all’interno della settima stagione di American Horror Story, le reazioni più naturali non potevano che prevedere una certa perplessità: in che modo Ryan Murphy, che ha appena vissuto il suo anno d’oro, sarebbe riuscito a portare il suo intento fino in fondo, senza correre il rischio di dar vita ad un disastro?
She was supposed to win
C’è solo una risposta: lo stato di grazia di Ryan Murphy è tutt’altro che esaurito. Lo si può vedere sin dalle primissime scene che riguardano proprio quella Election Night, quella notte dell’8 novembre del 2016, quando il mondo si è ritrovato, senza che se ne fosse davvero reso conto, un risultato elettorale molto differente da quello che il maggior numero di sondaggi sembrava presagire: l’elezione di Donald Trump metteva a nudo una società, quella americana, profondamente divisa al proprio interno, un vero e proprio ruggito di furiosa liberazione contro un establishment culturale che non si è mai trovato nella propria lunga storia così allo scoperto e senza frecce nella propria faretra. Ecco dunque che la destabilizzazione conseguente a quel momento storico viene genialmente rappresentata dalla serie sin dalle battute iniziali, per poi trovare via via sempre più spazio nelle crepe della debole psicologia umana, infiltrazione che ha la sua eco anche in momenti più sottili e bizzarri.
Ed ecco, dunque, che le paure della società “bene” americana si rivelano tutte nel personaggio interpretato da una sublime Sarah Paulson, capace come suo solito di evocare le più sottili sfumature di una personalità così complessa da rischiare costantemente – senza mai scivolarci tuttavia – di diventare una macchietta per il numero esagerato di fobie di cui è preda. Ally ha visto l’esplodere delle sue fobie in due occasioni della propria vita: dopo quell’11 settembre che ha cambiato il volto del mondo e dopo l’elezione di Donald Trump. A ben pensarci, pur facendo le necessarie proporzioni, è pur vero che l’impatto che il nuovo volto della presidenza americana (soprattutto in contrasto con quello che ha rappresentato il predecessore Barack Obama) ha avuto sulla middle class è effettivamente paragonabile in quanto a potenza dirompente e sconcertante. E così quel dolore e quella improvvisa instabilità si incarnano in un personaggio che sembra essere dominato e caratterizzato dalle proprie paure e che non a caso, con un tutt’altro che sottile ma non per questo meno efficace gioco parodico, vede la fobia dei pagliacci tornare proprio ora di gran prepotenza.
Il leitmotiv che sembra essere, dunque, alla base di questo episodio è la costante paranoia dettata dall’incapacità di decifrare la realtà come si è sempre fatto: in questo mondo a misura di fake news, in cui tutto ciò che si poteva dare per assodato e persino per scontato viene meno, Ryan Murphy decide di dare il via a qualcosa che sembra essere persino più promettente del solito, proprio lui che in quanto ad episodi di apertura di American Horror Story non ne ha mai fallito uno (al contrario di quanto possa dirsi, purtroppo, del resto delle stagioni). C’è qualcosa di perverso, di sadico e di divertito in questo racconto stagionale che riesce a mischiare con un rarissimo equilibrio – per ora – una componente di puro horror, ed in quanto tale irreale, con un racconto della realtà che più attuale non si potrebbe. Tutte le nostre certezze in fatto di verità e immaginazione vengono costantemente sconvolte: nessuno poteva davvero credere che i clown del supermercato fossero reali, ma allora come reagire alla scoperta che anche il figlio può vederli? Si tratta davvero di immaginazione – e dunque condivisa tra madre e figlio – o si tratta piuttosto di qualcosa di più complesso?
Quello che abbiamo raccontato sinora, però, rappresenta soltanto un lato della medaglia: all’ottima prova recitativa di Sarah Paulson fa da spalla l’altrettanto ottimo lavoro dell’altro veterano della serie, quell’Evan Peters che si ritrova a dover immergere le mani nel personaggio di Kai, un sociopatico che ha celebrato l’elezione del nuovo presidente americano con estrema gioia e persino esasperazione. Non perché ne sia un sostenitore accanito – almeno questo sembra cogliersi in questa premiere – ma perché fervente propugnatore della teoria del caos, convinto paladino di una riforma del mondo che passi attraverso l’idea di distruggere per ricostruire. Il suo ruolo da villain, che inizia a formarsi in questo episodio, getta le basi per una realizzazione futura del personaggio che è tra gli elementi sicuramente più interessanti dell’intera puntata, poiché capace di gettare una luce su un aspetto tutt’altro che secondario in questa tornata elettorale. I primi assaggi che abbiamo su di lui, e che si palesano in antisemitismo e più generale xenofobia, non sembrano avere nulla a che fare con il Make America Great Again, non è una reazione contro un mondo sempre più politicamente corretto, ma si tratta delle armi a disposizione di chi crede nella necessità di un nuovo ordine sociale che possa formarsi dalle ceneri di quello nel quale così agiatamente ci siamo costretti a vivere. Se dunque con Ally a cadere nella paranoia è la classe sociale dirigente (o comunque l’élite culturale), i paranoici e i fanatici dei complotti trovano in Kai la propria valvola di sfogo.
Interessante è poi notare quali sono i personaggi che sono stati affiancati ai due protagonisti: da un lato abbiamo Ivy (Alison Pill, The Newsroom), dolce e responsabile moglie di Ally, unico suo vero scudo contro il terrore che l’ha sempre attanagliata; dall’altra una ancor più divertita Billie Lourd che riprende parte della stranezza che era il suo punto forte in Scream Queens e la trasforma in un personaggio in bilico tra due istanze differenti, tra un passato di violenza autoinflitta ed un presente caratterizzato da un non ancora del tutto chiaro rapporto con il fratello. Quasi superfluo, poi, far notare il ritorno di Twisty the Clown, che viene a farci visita dalla quarta stagione Freak Show e che conferma ormai quanto siano sempre più mitologicamente legate le varie annate di American Horror Story.
Non lasciamoci ingannare, però: Ryan Murphy è tutt’altro che nuovo ad exploit particolarmente riusciti nelle premiere delle varie stagioni, salvo poi gettare tutto alle ortiche dopo pochi episodi, come se la spinta iniziale si esaurisse con estrema velocità. Innegabile, tuttavia, che questo esordio sembri persino più promettente di quanto abbiamo potuto vedere negli anni precedenti e Ryan Murphy ha in mano la difficile occasione di rappresentare il mondo contemporaneo nel modo più originale e potente che si possa vedere in TV.
Voto: 8+