Dopo anni di innovazione esasperata, in cui i fan di American Horror Story sono stati ostaggio delle mire creative di Ryan Murphy e Brad Falchuk, i due autori sono arrivati al punto in cui il massimo grado di rinnovamento è diventato fare un lungo salto nel proprio passato e attualizzarlo quel tanto che basta per renderlo appetibile al pubblico di oggi.
Streghe, vampiri e demoni non fanno più gola ai due creatori, che hanno ripiegato su atmosfere horror che ricordano la murder house di debutto, fortemente influenzate dal genere televisivo del momento, il docudrama. Dopo sperimentazioni coraggiose, ma raramente efficaci, Murphy e Falchuck sono arrivati alla conclusione che per fare qualcosa di davvero nuovo lo si debba contaminare con qualcosa di antico, il racconto quasi cronachistico della realtà: il primo autore da solo in Feud e entrambi insieme in American Crime Story hanno ripiegato sul factual per spingere i loro show oltre i limiti, con risultati soddisfacenti in ambo i casi. La settima stagione di American Horror Story non poteva essere da meno: la messa in scena dei momenti salienti dell’ultimo anno politico americano diventa così la base su cui costruire la questa annata dello show, che riscopre una freschezza persa da tempo. I creatori hanno fatto un passo in avanti coerente con il loro percorso creativo degli ultimi dieci anni, continuando a manipolare e dettare le regole di un genere che loro stessi hanno svegliato dal torpore che lo avvolgeva. La forte immersione di Cult in una dimensione non solo realistica ma anche reale e quotidiana ha di conseguenza influenzato tutto il racconto, che torna ad essere horror e ancora più spaventoso di prima, perché prende in esame direttamente l’Uomo di oggi e quindi tutti noi.
Normal people scare me, avevano scritto i due autori su una t-shirt indossata da Tate (Evan Peters) nella premiere di AHS: Murder House, e dopo sette anni di evoluzioni pare che tutto ci abbia riportato a quella frase, diventata col tempo la citazione simbolo della serie; le persone normali tornano ad essere protagoniste in Cult, insieme ai loro problemi normali e alle loro paure – normali, ma non per questo razionali. Le fobie, irrazionali per definizione, insieme ad una più generale paura per l’ignoto sembrano essere il filo conduttore che lega ogni parte in cui si può dividere la stagione: su un piano Ally (coulrofobica, emofobica e tripofobica), suo figlio, Kai e gli altri personaggi; sull’altro, il confronto/scontro tra la classe media repubblicana e democratica. Se la prima si sente minacciata da qualunque tipo di minoranza sociale e sessuale, la seconda, a seguito dell’elezione del quarantacinquesimo Presidente americano, sente sotto attacco le libertà conquistate negli ultimi cinquant’anni di lotte civili.
Sin dalla premiere è sembrato che Cult volesse essere un racconto sociale ancora prima di narrare una storia che facesse paura e per questo gli autori hanno deciso di abbandonare ambientazioni bizzarre raccontando invece un’America normale, ma spaccata in due, che ha paura di perdere la propria normalità a favore di quella altrui: da una parte troviamo i conservatori con le loro abitudini consolidate e il proprio stile di vita che inizia a cozzare con una società che tende all’inclusione; dall’altra abbiamo i progressisti, che non si riconoscono nelle vecchie regole sociali e tentano di liberarsene per non soccombere a queste. Questa contrapposizione fa scatenare gli eventi che vediamo in “Don’t Be Afraid of the Dark”, partendo dall’aggressione ai danni di Kai, fino alla morte di chef Roger; questa storyline, che ha origine con l’elezione di Trump, ha uno scopo sociale che supera il suo intento intrattenitivo, e ci fa porre diverse domande su quelli che potrebbero essere gli sviluppi a lungo termine, nella vita reale, di un evento storico come quell’elezione americana. Murphy e Falchuck, però, non sono soliti dare risposte definitive e, anzi, preferiscono creare diversi scenari e lasciare il giudizio allo spettatore; alla luce di questo, sarà interessante scoprire in che direzione decideranno di andare e se Cult proverà a creare un futuro distopico, rendendo questa stagione la più sorprendente di sempre. Come si evolverà la carriera politica di Kai? Quali saranno le conseguenze di quello che sembra un attacco terroristico che ha generato il blackout di fine episodio? L’omicidio di Pedro cambierà la percezione della sicurezza e quindi il rapporto tra stranieri e trumpisti?
Accantonata per un istante questa lettura di Cult, è facile accorgersi di trovarsi comunque davanti ad un prodotto molto soddisfacente: dopo anni, i creatori di AHS sono riusciti a portare sugli schermi di FX una vera storia horror americana, che, seppur senza rinunciare alle simbologie (la paura endemica di Ally per i clown è un chiaro riferimento al suo essere contro Trump, definito da molti suoi detrattori proprio un pagliaccio), funziona bene anche come puro drama horror. La perdita di alcuni orpelli registici tipici del passato ha alleggerito la messa in scena, che è libera di mostrarci le fobie di Ally nel modo più lineare possibile, almeno esteticamente; in questa stagione in particolare, AHS ha fatto sue le regole tipiche del genere horror, creando un’atmosfera non originale ma efficace. In “Don’t Be Afraid of the Dark” la tensione aumenta per tutta la durata dell’episodio, fino alla lunga sequenza che lo chiude ed esplode come esplode il colpo di pistola: la protagonista è in preda al panico e si fa forza per portare in salvo suo figlio, ma la paura la porta a sbagliare – e le conseguenze non si faranno attendere. L’unico problema che riguarda la stagione fino ad ora – nonostante l’introduzione dei nuovi vicini, l’evolversi del rapporto tra il piccolo Oz e la sua babysitter Winter e lo slancio politico di Kai – è l’eccessiva dipendenza del racconto dalle crisi psicologiche di Ally, che rimangono pressappoco le stesse nella premiere e in questo secondo episodio; è difficile pensare che si possa andare avanti così per molto tempo senza annoiare lo spettatore, per il momento interessato e divertito dall’ambiguità di questi episodi, che tuttavia hanno già perso parte della loro forza derivata dall’effetto sorpresa.
È ancora presto per farsi un’idea precisa su questa nuova stagione di American Horror Story, ma le premesse sono incoraggianti: le analogie con lo stile e i temi di Murder House unite ad un modo moderno di raccontare il presente – che Ryan Murphy e Brad Falchuk sanno utilizzare al meglio – creano un connubio efficace. L’abilità di Cult nel mischiare reale e realistico è la chiave vincente di “Don’t Be Afraid of the Dark”, episodio che non supera l’effetto sorpresa di “Election Night”, ma ci lascia comunque molto soddisfatti e con la certezza di fare sogni non tanto tranquilli.
Voto: 7+