American Horror Story: Cult – 7×11 Great Again


American Horror Story: Cult – 7×11 Great AgainSe dovessimo stilare una classifica delle serie più rappresentative del 2017, American Horror Story: Cult occuperebbe una posizione di tutto rispetto, guadagnata grazie al suo modo diretto e a tratti profetico di leggere il presente e più nello specifico proprio quest’anno, dodici mesi caratterizzati da forti tumulti politici e sociali, che hanno scosso le coscienze di molti.

I creatori Ryan Murphy e Brad Falchuk da sempre lavorano con un occhio fisso sui temi di più stretta attualità (diritti civili, bullismo, omosessualità, integrazione), puntandoci sopra un riflettore per far discutere il loro pubblico; con Cult, però, si è arrivati ad una svolta importante nella loro filmografia: per la prima volta, il duo di autori non mette semplicemente in scena una storia, ma ci dice cosa ne pensa di un tema – o per meglio dire, di più temi –, subordinando qualsiasi elemento diegetico ad una personalissima analisi critica del presente. Il mondo post elezioni presidenziali americane del 2016 è stato commentato da tutti, star di Hollywood comprese, tramite tweet, stories, dichiarazioni su carta stampata, partecipazione attiva per le strade; Murphy e Falchuk hanno deciso di dire la loro in uno show di undici puntate da quaranta minuti ciascuna, aumentando esponenzialmente la complessità del pensiero espresso, inversamente proporzionale alla cura delle storyline con cui è stato possibile veicolarlo. In questo modo siamo stati testimoni di una settima stagione di American Horror Story divisa in due, fortissima nel sottotesto, ma non altrettanto nella parte più squisitamente narrativa, che deve rincorrere le opinioni degli autori, rimanendo sempre un passo indietro.

American Horror Story: Cult – 7×11 Great AgainSi è parlato di analisi critica del presente ed è questa la parte più importante di tutto il progetto, che diventa quasi un lungo editoriale firmato dai due autori sulla situazione politica e sociale americana dell’ultimo anno: si parla di Trump e di chi l’ha sostenuto, delle manifestazioni contro la sua elezione e contro un certo modo di fare politica, di fake news, di patriarcato e femminismo, esponendo la propria visione del mondo americano in modo ampio e coerente, ma un po’ troppo didascalico, facendo capire anche allo spettatore meno attento la lettura che si intende dare di questo o quel tema. Il giudizio sulla politica in generale e sul Presidente in carica è impietoso: Kai Anderson è il personaggio simbolo di questo tema e non a caso è descritto come un giovane looser che diventa capo di una setta, alimentato da pensieri inculcati da altri (in questo caso da Bebe “Frances Conroy” Babbitt). Il ragazzo è la chiave per comprendere il significato di questa stagione, utilizzato anche come monito dagli autori per sottolineare che i grandi capi carismatici non sempre sono quello che sembrano; è compito dell’individuo capire con chi ci si sta confrontando, incarico più arduo del previsto, vista la varietà di coloro che sono caduti nelle mani di Kai – giornalisti, cuochi, piccoli imprenditori, criminali.

La figura dell’uomo di potere con secondi fini, però, è destinata a fallire, come ci viene mostrato in “Great Again”: Kai (e in modo decisamente minore la Ally politica – di cui ci viene mostrato appena il futuro, che strizza l’occhio al percorso del ragazzo) è attratto da un’organizzazione quasi feudale del potere, riconosciutogli soprattutto dalla stretta cerchia di persone che lo segue. Così come Kai ha perso quel potere quando Ally e Beverly Hope si sono rese conto della pericolosità del giovane (coinvolgendo poi le forze dell’ordine), gli autori ci suggeriscono che anche a livello politico il potere possa essere tolto semplicemente aprendo gli occhi e rendendosi conto di chi si ha davanti – in questo caso il riferimento è a Trump, declassato a bugiardo capo carismatico. Murphy e Falchuk, però, calcano ancora di più la mano: prima investono Kai di tutte le qualità negative addotte a Trump, poi fanno interpretare a Evan Peters (che presta il volto proprio a Kai) anche dei famosi e sanguinari leader di culti come Charles Manson, Jim Jones, David Koresh e Marshall Applewhite – insieme a Gesù Cristo, dettaglio che gli autori non avranno inserito a caso – mettendo sia il Presidente che gli altri personaggi sullo stesso piano. Facendo interpretare allo stesso attore tutti questi uomini, gli autori lavorano per assonanza e suggeriscono una similitudine molto efficace dicendoci, senza troppi giri di parole, che Trump è un sanguinario leader di un culto (politico). La distruzione del Presidente americano in carica dunque è totale.

American Horror Story: Cult – 7×11 Great AgainAmerican Horror Story: Cult, però, non si occupa solo di politica, e dedica allìaspetto sociale una grossa fetta di tempo, cercando così di far capire al pubblico le condizioni che hanno portato all’elezione del più controverso Presidente americano di sempre. Anche in questo caso Kai è il personaggio che più di tutti permette agli autori di fare una riflessione critica: tramite il ragazzo, Murphy e Falchuk hanno messo in campo due temi caldi, il patriarcato e il femminismo, che nella realtà si sarebbero incendiati solo a ridosso e durante la messa in onda degli episodi, contrapponendosi come due facce della stessa medaglia. Kai Anderson è inoltre il fondatore del suo culto e in breve tempo, nonostante la giovane età, diventa un vero e proprio pater familias per i ragazzi all’interno della sua setta; non solo impartisce insegnamenti e lezioni di morale, ma dispone anche del diritto di vita e di morte su suoi adepti, costringendoli a bere una Kool-Aid avvelenata (anche se per finta). Il punto più estremo di questo rapporto lo vediamo proprio nel finale di stagione, in cui si sta per compiere The Night of 100 Tates – come Sharon Tate, attrice incinta uccisa in uno degli agguati firmati da Charles Manson –, prontamente sventata da Ally. È proprio Ally l’argine al patriarcato folle di Kai, l’unica che ha saputo capire la follia di quell’individuo e ha fatto di tutto per contrastarlo; Kai stesso, inolte, aveva iniziato la sua opera distruttiva con l’intento di accendere gli animi delle donne e di farle reagire, spinto da Bebe Babbitt, femminista della prima ora, portando a compimento un piano orchestrato alla perfezione. In questo caso, anche il patriarcato non fa una bella figura in Cult, venendo descritto come irrazionale e influenzabile, soprattutto dalle donne, unica speranza rimasta per un futuro migliore.

American Horror Story: Cult – 7×11 Great AgainÈ facile leggere il nome di Hillary Clinton – che appare anche nella sigla – quando si oppone il femminismo politico di Ally alla smania di potere di Kai, perché si tratta di una donna e di quella che poteva essere l’unica alternativa alla deriva patriarcale di Trump; i creatori, però, ci tengono a sottolineare che neanche il femminismo può essere considerato la panacea di tutti i mali. Gli ultimi istanti che chiudono “Great Again” vedono una Ally sulla cresta dell’onda, libera da fobie e dagli altri pesi morti della sua vita, ma pronta a commettere gli stessi errori che altre donne hanno commesso in passato, raccontando un presente tristemente ciclico; le orme di Valerie Solanas e Bebe Babbitt sono facili da seguire e la mantella verde che indossa la protagonista (uguale a quella indossata da Bebe la prima volta che la incontriamo in Cult) sembra suggerire che Ally seguirà proprio quel tipo di femminismo estremo e fallimentare (Mama has a meeting. A group of powerful, empowered women who want to change the system).

Proprio lo spiazzante colpo di scena che chiude il season finale di Cult fa parte di quella serie di eventi che rende la trama della stagione improbabile. Perché Ally sarebbe dovuta entrare nel culto iniziato da Valerie Solanas e mantenuto in vita da Bebe Babbitt, che non conosceva e che muore proprio per mano sua? Come è possibile che, dati i precedenti di Kai, lui venga messo in prigione a contatto con soggetti potenzialmente perfetti per dare vita ad un’altra setta? Com’è possibile che il piano d’evasione così precario di Kai possa avere successo? Come riesce Ally a scoprire il piano pensato dal ragazzo per vendicarsi di lei e cercare la complicità della guardia carceraria? E perché i nuovi membri della setta di Kai, essendo armati, non intervengono in teatro appena si rende palese il doppiogioco della guardia carceraria? È facile porsi numerose domande sulla trama della stagione – per esempio, com’è riuscita Ally a guarire dalle sue fobie? – e proprio questo abbassa di molto il livello qualitativo di questa annata, che si permette troppo spesso passaggi poco verosimili e buchi anche nella descrizione dei suoi protagonisti.

Per questi motivi American Horror Story: Cult risulta molto interessante, una vera e propria svolta rispetto al passato dello show; la stagione più impegnata a livello sociale, però, fa questo salto di qualità sacrificando coerenza a livello narrativo e dilatando una storia fin troppo semplice, imbottendola delle opinioni personali dei due autori: un’operazione rischiosa che, però, ha avuto successo proprio per la sua complessità e originalità.

Voto 7×11: 7+
Voto stagione: 7/8

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Informazioni su Davide Canti

Noioso provinciale, mi interesso di storytelling sia per la TV che per la pubblicità (in fondo che differenza c'è?!). Criticante per vocazione e criticato per aspirazione, mi avvicino alla serialità a fine anni '90 con i vampiri e qualche anno dopo con delle signore disperate. Cosa voglio fare da grande? L'obiettivo è quello di raccontare storie nuove in modo nuovo. "I critici e i recensori contano davvero un casino sul fatto che alla fine l'inferno non esista." (Chuck Palahniuk)

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