In parte ancorata a quel modo di fare televisione che tanto ha segnato gli anni Duemila, The Deuce chiude una bellissima prima stagione senza il bisogno di strafare, sorprendere o cambiare le carte in gioco; piuttosto, agisce col solito ampio respiro, continuando a tinteggiare una Manhattan sporca e vivissima con la precisione e la cura a cui siamo stati abituati.
“My Name is Ruby” è un episodio che vive di costruzione e stratificazione, i due grandissimi punti di forza delle stagioni scritte da David Simon: un autore che ha sempre preferito una struttura più simile al romanzo, in cui il quadro d’insieme è di gran lunga più valido della somma delle parti. In questo caso, la chiusura narrativa è molto meno forte del solito, dato il rinnovo per una seconda annata, e il finale ha il compito di chiudere gli archi dei personaggi, più che mai il centro focale di una stagione che ha avuto il pregio di seguire il flusso dei suoi protagonisti senza preoccuparsi di metter fretta al filone principale del racconto.
È proprio questo andamento rilassato e naturale che permette alla scena che dà il titolo all’episodio di funzionare così bene. Ruby (o “Thunderthighs”) è sempre stata un personaggio di contorno, mai effettivamente utile allo sviluppo del racconto quanto lo è stata per la costruzione dell’ambiente secondo lo stile di Simon e Pelecanos: il modo più efficace per garantire immersione ed empatia con un certo mondo sta nel tratteggiare al meglio chi questo mondo lo abita, a prescindere dalla sua rilevanza per la storia in sé. In un certo senso, anzi, la vera storia raccontata nelle opere di Simon sta nella rappresentazione di un’epoca o di un ambiente, nella messa in atto di un mosaico in cui ogni pezzo ha qualcosa di importante da dire semplicemente in quanto essere umano trovatosi a vivere in un determinato contesto.
Ed è per questo che sequenze come il dialogo per strada tra Ruby e Chris scorrono così fluidamente, vivendo del lavoro di tridimensionalizzazione dei personaggi (anche se marginali) per approfondirli ulteriormente in pochi passaggi, intrecciandoli e mettendoli a contatto tra loro come pedine su una scacchiera. La morte di Ruby funziona quindi da collante, riunendo comprimari prima sempre staccati sotto un denominatore comune, alimentando la storyline di ognuno per motivi anche diversi tra loro.
Per Vincent, il problema sta nel filo che lo tiene legato a due realtà totalmente diverse tra loro. Da un lato c’è la gestione del bar e la storia con Abby, un mondo tranquillo e felice in cui il suo sogno è del tutto realizzato; dall’altro c’è il lavoro per Rudy che riguarda sfruttamento e violenza, apprezzato dal fratello (che ne rispecchia quasi la parte più istintiva e repressa) ed inevitabilmente intrecciato alla vita di Vince, che lui lo voglia o meno. Il problema nasce non solo quando l’essere diviso lo porta ad essere assente nelle situazioni in cui serve di più, ma soprattutto nel momento in cui il legame con la mafia comincia a risultargli utile ed in qualche modo piacevole, sfruttando la propria posizione di superiorità (il pestaggio contro chi ha maltrattato l’ex-moglie) in maniera quasi simile a quanto fatto dai papponi con le proprie protette.
Ed è forse in questo senso che si comincia ad intravedere il legame del personaggio di James Franco col resto del racconto, da cui rimane ancora fortemente slegato con qualche piccola eccezione. La storia di Vince ha infatti un’affinità più tematica che narrativa con le altre storyline della serie: si parla, dopotutto, di autoaffermazione e dei compromessi dello spirito imprenditoriale che è alla base dell’America, si parla di femminismo, oppressione ed emancipazione (e qui il ruolo di Abby si fa fondamentale), si parla anche di omosessualità ed accettazione – le affinità tra il caso di Paul e quello del fratello di Candie sono purtroppo molto chiare.
Tutte queste tematiche, comunque, non possono che tornare nella linea narrativa che più di tutte racchiude l’anima della serie: e si parla ovviamente del percorso di Candy, vera e propria protagonista dello show nel suo ruolo di eroina per tutto il genere femminile, in grado di evadere da una situazione apparentemente senza via d’uscita trovando il proprio posto nel mondo. In questo senso, il twist più grande della stagione sta forse nel modo in cui la pornografia si è imposta non come condanna ma come salvezza, rivelandosi via di fuga da un mondo violento ed oppressivo, esclusivamente controllato da uomini. La realtà del porno si pone invece come qualcosa di ben diverso, sempre indirizzato verso il piacere maschile e sempre alimentato dall’oggettificazione della donna, ma in un modo che concede paradossalmente più libertà a chi recita, in quanto mai direttamente coinvolta con chi consuma il prodotto in questione.
Quello che Simon e Pelecanos cercano di raccontare, in sostanza, è che il percorso di risalita di una classe oppressa non avviene mai all’improvviso, ribaltando lo status quo e trovando un lieto fine che accontenti tutti; piuttosto, si parla di compromessi e mezze vittorie, di piccoli passi in avanti che chiedono sempre un prezzo da pagare, come sottolinea perfettamente la parte sul giornalismo e sui sacrifici necessari per garantirne un impatto duraturo. È forse questo il discorso più caro al percorso autoriale di uno showrunner come Simon, che, alimentato dalla sua impronta giornalistica, rimane sempre ossessionato dal realismo senza compromessi, dal dover analizzare le contraddizioni e le implicazioni di ogni situazione con uno sguardo costantemente rivolto verso i personaggi che ne sono coinvolti, trattando ogni singolo pezzo come parte fondamentale ed imprescindibile di quello che viene raccontato.
Data la sua concezione come racconto in più stagioni, The Deuce può permettersi di parlare esattamente di questo, si può prendere tutta la calma del mondo per costruire tematiche e collegamenti tra comprimari senza il bisogno di accelerare per dare una chiusura definitiva alla storia. È sicuramente questo uno dei pregi di questa prima annata, che ha sì un sapore fortemente introduttivo, ma è anche stata capace di approfondire un sistema immenso di personaggi con un’attenzione al dettaglio decisamente invidiabile, aiutata sia da una scrittura che è ormai una costante nel lavoro di Simon, che da un team di registi (e Michelle MacLaren inevitabilmente spicca su tutti) in grado di trasformare il tutto in intrattenimento trascinante, in costante e perfetto equilibrio tra l’empatia con le situazioni presentate e il distacco necessario per tener d’occhio il quadro generale.
Perché è vero che questa prima stagione di The Deuce ha un’impostazione del tutto tradizionale, che ha il “mero” compito di presentare e delineare una situazione senza ancora mettere insieme – narrativamente parlando – il quadro generale; ma è anche vero che è un compito che svolge con una qualità ancora oggi rara in televisione, riuscendo a trovare costantemente qualcosa di importante da dire.
Voto episodio: 8/9
Voto stagione: 8½
Mi mancava proprio tanto una serie “d’epoca” così; un racconto molto ben scritto e soprattutto molto ben interpretato da un folto cast calato a pennello in un preciso periodo storico molto ben ricostruito nel mood fin nei minimi particolari (una resa così naturale e realistica che ad esempio a Vynil è mancata). Questa The Deuce mi ha ricordato tanto Boardwalk Empire, ma anche Mad Men e i Soprano, quelle che io chiamo le “serie ossimori” per i loro temi trattati in un contesto incredibilmente e paradossalmente opposto.
Ho dato 10 a questo episodio perché emblematico di una stagione dal mio punto di vista perfetta.Quello che mi piace nello stile di Simon è il modo di raccontare storie e personaggi senza giudicarli. Il racconto è così fluido e naturale che a me non sembra di guardare uno schermo ma di essere affacciata alla finestra e guardare lo scorrere della vita reale così com’è, senza filtri. Un 10 anche alla recensione, i miei complimenti!