Per quanto il formato antologico, tanto caro alla televisione britannica, si stia facendo sempre più spazio nel panorama televisivo d’oltreoceano dando vita a prodotti interessantissimi (pensiamo, ad esempio, al recente Room 104 o ai lavori di Ryan Murphy), bisogna riconoscere che portare una serie come Black Mirror ad una quarta stagione non deve essere facile. Charlie Brooker ha, finora, saputo reinventarsi (con risultati più o meno condivisi ma sempre e comunque al centro dell’attenzione di pubblico e critica) spaziando fra le diverse inflessioni di genere e fra gli interrogativi posti dal racconto fantascientifico.
D’altro canto, questo tipo di formato è anche ciò che ha fatto la forza di Black Mirror, conferendo alla scrittura un’invidiabile libertà di sperimentazione per il semplice fatto che qualsiasi nuova direzione si voglia intraprendere verrebbe, alla peggio, circoscritta ad un singolo episodio.
Con “Metalhead” ci troviamo, in effetti, di fronte ad un episodio del tutto particolare, coraggioso, di quelli che tendono a dividere il pubblico in due fazioni opposte. Lo è per diversi motivi, prima di tutto per un ritorno ad un cast e ad una regia completamente britannici (sceneggiato dallo stesso Brooker, il regista è David Slade, e l’attrice protagonista Maxine Peake) che fanno tornare alla memoria i toni delle prime due stagioni. In secondo luogo, per alcune scelte tematiche e stilistiche, quali l’uso del bianco e nero, lo scenario post-apocalittico che si accompagna ad una riduzione all’osso di dialoghi, personaggi, trama e backstory.
L’episodio potrebbe ricordare il “White Bear” della seconda stagione per l’impostazione minimale dove la sensazione di angoscia è creata dallo stato di fuga costante della sola protagonista femminile. La puntata sfruttava uno schema tanto caro a Brooker che introduceva lo spettatore in medias res senza dargli, da subito, gli elementi necessari a comprendere il contesto, aumentando così confusione e possibilità di fraintendimento, facendo scoprire la verità all’avanzare dell’episodio fino all’agnizione finale. In questo caso, però, il finale dell’episodio non ci fa sapere molto più di quello che abbiamo intuito fin dall’inizio sul mondo dove Bella vive o sulle ragioni che l’hanno spinta a partecipare alla spedizione. Questo perché l’intento di “Metalhead” è chiaramente un altro: la riduzione all’essenziale degli aspetti legati a scenografia e sceneggiatura permette di concentrarsi meglio su questioni di stile e di genere.
La scorsa stagione aveva rappresentato la prima parte della “fase americana” di Black Mirror ed aveva palesato l’intenzione della serie di ampliare il discorso fantascientifico anche sul piano metanarrativo proponendo un’interessante riflessione sui generi cinematografico-televisivi filtrati dalla forma di distonia tipica della serie. “Metalhead” è, in questo senso, un modo di rendere omaggio al cinema di fantascienza e dell’orrore più tradizionale e alle sue tecniche narrative e rappresentative e, quindi, ad una modalità specifica e datata di raccontare e di sentire l’orrore. Possiamo dire, in questo senso, che l’episodio trova il modo di riflettere stilisticamente sul passato. L’uso del bianco e nero, le situazioni estremamente chiare, l’impiego dell’effetto sonoro ad accompagnare o a sottolineare il momento visivo di tensione, il ralenti: Booker e Slade riprendono esplicitamente e rielaborano i maestri del racconto cinematografico di fantascienza e dell’orrore classico.
Quello a cui assistiamo è pura azione e la paura, la tensione, l’angoscia sono prodotte in modo puramente “situazionale”, esterno, pratico. L’aspetto, forse, più interessante di quest’operazione è il fatto che al centro della rappresentazione si trovi quella paura viscerale e semplicissima verso “il robot”, verso il tecnologico con così tanta cura problematizzata e sfaccettata nel corso di tutta l’antologia di Black Mirror. Quasi come se lo scenario post-apocalittico avesse spazzato via anche tutto il processo di integrazione e assimilazione del tecnologico da parte dell’umano, “Metalhead” riporta la tecnologia al suo ruolo primigenio di “Altro”, di nemico, di macchina da fuggire e/o distruggere. Ri-creando un “cattivo” che non ha psicologia, non ha obiettivi, non ha risentimenti, una fredda macchina programmata per uccidere l’umano, l’episodio rievoca al contempo la rappresentazione della più grande distanza fra macchine e uomo, restituendo la purezza e le antiche estremità del conflitto.
Pur quasi senza dialoghi o grandi momenti più propriamente riflessivi, scrittura e regia (e performance attoriale) riescono comunque a rappresentare egregiamente questo antagonismo fra macchina e umano: Bella soffre, piange, dubita, riflette, si sforza, gioisce, rimpiange, sbaglia, fa rumore, chiama aiuto, si rassegna, spera, riprende le forze, si riorganizza, si cura, si nasconde mentre “the dog” agisce automaticamente ed efficacemente, insofferente alla situazione, ma si trova bloccato nel momento in cui necessita di trovare una soluzione capace di raggirare i suoi limiti fisici. Per questo il fatto che la dinamica secondo cui proprio sfruttando i limiti della macchina la protagonista riuscirà a distruggerla non suona assolutamente come un ex machina ma, anzi, come un susseguirsi perfettamente credibile.
Il resto della tecnologia presente nell’episodio, quella integrata alla vita dell’umano, come la televisione o la ricetrasmittente, che solitamente rappresenta il centro della riflessione della serie, non è che un involucro vuoto, un perenne “white noise” che dà solamente l’impressione di funzionamento.
“Metalhead” è insomma, probabilmente, l’episodio di Black Mirror che più guarda al passato nel senso di una riflessione sui canoni del genere dell’orrore che possono ancora funzionare ed essere messi al lavoro. Brooker risveglia e re-interroga un orrore antico e lo fa attraverso la rielaborazione dei meccanismi più classici di rappresentazione: la paura, la fuga, l’attesa, l’errore, il buono, il cattivo, la vittima, il carnefice. La scommessa vinta di questo episodio è che i racconti di riferimento vengono fatti funzionare ancora e in modo interessante: anche il bianconero che vediamo non ha l’aria retro ma quella asettica e fredda dello sci-fi à la Black Mirror.
Voto: 8
Ciao Irene,
ottima recensione, ma non mi trovo d’accordo su un aspetto. Se è vero che Brooker qui ha puntato molto su stile, estetica e tecnica, è anche vero che è nell’ultima scena che troviamo la chiave di lettura dell’episodio. La missione era per recuperare dei peluche, dei giocattoli. Questo spiegherebbe i pochi dialoghi e le scuse telefoniche. Secondo me la puntata è metaforicamente la storia di una madre che cerca di salvare i propri figli da un modo freddo, meccanico e violento. Cerca di regalare loro l’innocenza dell’infanzia, di un semplice peluche, piuttosto che alienazione tecnologica tipica del nostro tempo di cui, ahimè; i bambini fanno parte fin da subito. Ovviamente neanche a dirlo, fallisce.
Ciao Daniele,
La lettura che proponi dell’episodio come metafora dell’affanno di una madre che fugge e combatte il presente ipertecnologico dei figli è molto interessante, nonché in linea con la retorica tipica di Black Mirror e potrebbe essere un altrettanto interessante punto di partenza per una discussione su statuto e ruolo della tecnologia da una prospettiva intergenerazionale.
Quando parlo del fatto che l’episodio si concentra più su questioni estetiche che di contenuto non voglio dire che non si possano trarre riflessioni a partire dal contenuto dell’episodio (come hai fatto tu, ad esempio) ma piuttosto che “Metalhead” presenta un’impostazione apertamente metanarrativa e spinge, più di altri episodi magari, lo spettatore a porsi delle questioni legate a stile, tecnica, ecc. L’uso del bianco e nero, ad esempio, o il modo in cui viene impiegato il sonoro non può che rimandare criticamente ad un modo più classico di fare cinema e dare il la ad una riflessione sul mutamento dei modi di rappresentazione e di concezione dell’horror o del fantascientifico.
Volevo semplicemente dire che il fatto che la trama sia piuttosto scarna o, meglio, minimale con molta più azione che approfondimento psicologico, contesto o background dei personaggi, a mio avviso, permette di concentrarsi soprattutto (ma non solo) sugli aspetti formali di cui sopra.
Spero di essermi spiegata un po’ meglio,
Buona giornata!
Ciao Irene ,
Complimenti per la disamina dell’episodio
Metal head rappresenta purtroppo la fine dell essere umano e la vittoria definitiva della macchina . Tra L altro ho sempre pensato fin dall inizio che il robot non fosse da solo , e infatti…..A noi il compito di evitare questo futuro inquietante, dato che abbiamo molte più freccie nel nostro arco rispetto a quelle del dog. L astuzia su tutte : la vernice bianca, L altezza elevata sono escamotage geniali di una protagonista presentata in una maniera un po’ rozza . O perlomeno non ti aspetti che sia così furba ( almeno per me è stato così ) … questa paura comunque è quella che provo io quando sento parlare di receptionist robot , macchine che ti portano la spesa . Ecc … non siamo pronti per tutto questo . Anzi io non voglio tutto questo .. siamo ancora in tempo per evitare la follia ?