Room 104 – La stanza-laboratorio dei fratelli Duplass


Room 104 – La stanza-laboratorio dei fratelli DuplassIn un 2017 produttivamente molto denso, ricco tra l’altro di serie amatissime dal grande pubblico (Game Of Thrones, Stranger Things) e di ritorni roboanti (Twin Peaks), non è stato facile per prodotti “minori” trovare lo spazio e la dimensione che avrebbero meritato; Room 104 fa parte di questo gruppo di produzioni, con la difficoltà ulteriore di possedere un format non ancora molto diffuso e, soprattutto, che non si basa sull’affezione del pubblico per i personaggi, uno dei punti di forza – per definizione – delle serie televisive.

Stiamo parlando infatti di una serie antologica nella quale ogni episodio fa storia a sé e l’unica cosa che rimane invariata per tutta la stagione è la location: la stanza 104 di un motel statunitense, non meglio localizzato geograficamente. Viene spontaneo associare questa configurazione a Black Mirror, probabilmente lo show che in questi anni ha contribuito maggiormente – grazie alla sua qualità e al successo ottenuto – a rilanciare questo tipo di prodotti, ed effettivamente si individuano alcuni punti di contatto, seppur esclusivamente a livello concettuale, tra le idee alla base delle due serie televisive: i fratelli Duplass, così come Charlie Brooker soprattutto nelle ultime due stagioni, scelgono di spaziare molto tra i generi narrativi a loro disposizione, proponendo episodi molto diversi tra loro per struttura narrativa, tematiche introdotte e caratteristiche tecniche. Importante menzionare anche la notevole influenza di Inside No.9, gioiello della televisione britannica creato da Reece Shearsmith e Steve Pemberton, che con Room 104 condivide anche l’ambientazione al chiuso, oltre che il format.

Room 104 – La stanza-laboratorio dei fratelli DuplassOgni episodio, quindi, ha una storia diversa, con attori e autori diversi, temi diversi e sviluppi imprevedibili: non c’è un filo logico evidente o una tematica di fondo a collegare la stagione, né dal punto di vista narrativo che strutturale rispetto alla trama verticale di ogni episodio. La stagione è a tutti gli effetti una raccolta di cortometraggi – considerata la durata molto breve di ogni puntata – che vanno analizzati singolarmente e che, proprio per questo motivo, determinano l’andamento altalenante della qualità della serie. Ad episodi eccellenti, infatti, ne corrispondono altri molto deludenti e alle volte addirittura disastrosi, con una trama inconsistente e priva di mordente. C’è da premettere che è uno show che si pone fin da subito l’obiettivo di esplorare territori ancora sconosciuti nell’universo della serialità, proponendo variazioni significative e coraggiose alle classiche regole dello storytelling; questo premette una difficoltà di fondo nel far breccia nei cuore del telespettatore contemporaneo che potrebbe stancarsi facilmente e abbandonare anzitempo – magari dopo un episodio particolarmente sottotono – la serie HBO.

È proprio il lato avanguardistico e sperimentale l’aspetto più interessante di Room 104, un aspetto che avevamo già inziato a notare parzialmente con il pilot “Ralphie“: questo emerge in tutta la sua potenza ed esplosività nella parte centrale della stagione, composta da un dittico di episodi che rappresentano, per motivi diversi, le potenzialità infinite dello show. Stiamo parlando di “The Internet” e “Voyeurs”, due storie totalmente diverse e stilisticamente agli antipodi: se nella prima si fa della verbosità e del linguaggio il principale motore della trama, la seconda è caratterizzata dall’assenza di dialoghi e veicola la narrazione attraverso il linguaggio del corpo delle due attrici coinvolte. Quest’ultima, infatti, rappresenta il livello massimo di sperimentazione visiva offerta dalla serie, capace di raccontare la vita della protagonista, una domestica infelice sospesa tra passato e futuro, attraverso l’arte del balletto e della danza interpretativa. L’episodio, scritto e diretto dalla coreografa Dayna Hanson, rappresenta la commistione di generi per eccellenza e, proprio per la sua atipicità, non sarà unanimemente apprezzato.

Room 104 – La stanza-laboratorio dei fratelli DuplassCome si diceva, “The Internet” è il contraltare perfetto per “Voyeurs”: la trama si basa sulla sola incredibile performance attoriale di Karan Soni, un ragazzo del 1997 che tenta di spiegare alla madre (la cui voce è di Poorna Jagannathan) come inviare un’importantissima e-mail al suo computer. La genialità del concept si sposa con una realizzazione magistrale e un discorso più ampio sull’incomunicabilità generazionale, all’interno del quale l’evoluzione tecnologica gioca un ruolo di primo piano. Scritto da Mark Duplass e diretto da Doug Emmett (anche direttore della fotografia di tutti gli episodi), l’episodio contestualizza il periodo storico in cui è ambientato con il formato 4:3, a riprova di come ogni segmento antologico tenti di crearsi un’identità propria e definita.

Nonostante si sia detto – e non lo si vuole negare – che non esista un vero fil rouge tra le vicende dei diversi ospiti della stanza 104, se si passa ad un livello superiore di interpretazione notiamo come ci si trovi quasi sempre di fronte ad individui in lotta, o semplicemente in comunicazione, con il loro passato recente o lontano. È il caso per esempio di “Boris”, la storia di un tennista sul viale del tramonto che si confronta con l’esperienza traumatica della guerra e di come il proprio talento lo abbia reso un superstite; la pesantezza del senso di colpa è però un elemento ricorrente, lo ritroviamo infatti anche in “I Know You Weren’t Dead”, nello straniante “The Knockadoo”, in “The Missionaries” e nello struggente “My Love” che chiude la stagione. Ancora diverso il rapporto tra la protagonista di “Phoenix” e il suo recente trascorso; sfuggita ad un incidente aereo approfitta della situazione per fuggire e provare a ricominciare una nuova vita, nonostante si debba confrontare con il peso di abbandonare la propria famiglia.

Room 104 – La stanza-laboratorio dei fratelli DuplassLe eccezioni a questa tendenza narrativa, incentrata quasi totalmente sull’interiorità dell’individuo, sono “Pizza Boy”, “The Fight” e l’eccellente “Red Tent”. Se il primo, che trae ispirazione dallo stile del già citato Inside No.9, caratterizzato dal fatto che il colpo di scena finale determina a posteriori il significato della trama, non riesce a lasciare il segno, di tutt’altra pasta sono il decimo e l’undicesimo episodio, molto più interessanti e degni di nota. “The Fight” trasforma la stanza 104 in un vero e proprio ring sul quale si affrontano Natalie Morgan e Keta Meggett, due lottatrici di MMA che si accordano sullo scontro che avrà luogo il giorno successivo; l’esperienza di fisicità che l’episodio genera è totale, tanto che sembra di trovarsi davvero di fronte ad un incontro di arti marziali – di nuovo, come in “Voyeurs” ma in modo differente, il corpo delle attrici si fa vettore di emozioni e sensazioni. “Red Tent”, invece, trova il suo punto di forza nel collegamento con la politica contemporanea tratteggiando, con due soli personaggi e un dialogo intelligente, le ansie e le insicurezze degli americani nei confronti della classe dirigente. L’episodio non lesina dal porre interrogativi complessi e moralmente ambigui, qui collegati chiaramente alla presidenza di Trump ma che possono essere estratti dal contesto e generalizzati.

Room 104 è un prodotto complesso e innovativo, frutto della creatività di numerosi autori, tra sceneggiatori e registi – dei quali più della metà sono donne, un dato non indifferente – che ha nella sua volontà di avventurarsi nei territori meno battuti della serialità una delle sue armi vincenti. Non tutti gli episodi centrano questo obiettivo – la struttura non impone neanche di doverli vedere per forza tutti –, ma il progetto dei fratelli Duplass, se analizzato nella sua interezza, è di considerevole spessore, soprattutto alla luce di piccoli gioielli come “The Internet”, “Voyeurs” e “Red Tent”. La recente diffusione delle serie antologiche come Room 104 – tra cui inseriamo anche Philip K. Dick’s Electric Dreams e Lore – è un valore aggiunto al panorama televisivo contemporaneo che, saturo di prodotti di altissima qualità, è destinato ad evolversi e a sperimentare per non implodere in se stesso.

 

Informazioni su Davide Tuccella

Tutto quello che c'è da sapere su di lui sta nella frase: "Man of science, Man of Faith". Ed è per risolvere questo dubbio d'identità che divora storie su storie: da libri e fumetti a serie tv e film.

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