Nel processo di “presentificazione del passato” di cui Netflix si è fatto portatore, dimostrando di saperci lavorare molto bene – sia nella creazione di prodotti fondati su un linguaggio vecchio di decenni (Stranger Things) sia nella riesumazione di opere dal grande impatto (Gilmore Girls) -, la prima stagione di One Day at a Time si era rivelata un momento felice dell’annata seriale. Ad onor del vero, nonostante i dati relativi agli spettatori rimangano esclusivo appannaggio di Netflix, l’impressione è che tale successo sia rimasto limitato agli addetti ai lavori, lasciando il grande pubblico perlopiù ignaro.
A colpire era stata la capacità di rivitalizzare un formato proveniente dal passato (la sitcom multicamera correlata di risate registrate) che, tranne per poche felici eccezioni (The Big Bang Theory), sembrava destinato all’oblio.
Per questa seconda stagione il compito degli autori consisteva nel mantenere l’efficacia della prima, senza poter contare sul coefficiente di stupore iniziale. Per farlo hanno deciso di insistere – in alcuni momenti troppo – su quelli che erano gli altri punti di forza dello show.
I am proud latinx!
A partire da “The Turn” si rende evidente come l’intenzione dello show sia quella di catturare ogni sfumatura di ciò che comporta essere latini negli Stati Uniti. La capacità di attualizzare il formato riconosciuta a Gloria Calderon Kellett e Mike Royce si traduce nell’ammirevole abilità di catturare il particolarismo etnico e restituirlo allo spettatore ampliato, in grado di dire qualcosa a tutti.
Una scazzottata fra ragazzi è il pretesto per portare alla luce il “mobbing” razzista a cui è sottoposto chiunque sia fenotipicamente originario di un’altra parte del mondo. Se, almeno in teoria, possiamo considerare superato l’utilizzo della regione di provenienza come offesa, si instaura un tipo di razzismo pregiudiziale più sottile e difficile da estirpare: la convinzione secondo cui tutti i latini, ma anche tutti gli africani o gli asiatici, siano uguali gli uni agli altri.
È attraverso questa attenzione alla ripetitività del gesto quotidiano che One Day at a Time riesce ad essere efficace nel suo racconto, narrando il punto di vista di personaggi che, altrimenti, avrebbero poche occasioni di ritrovarsi sotto il focus della telecamera.
L’aveva fatto anche Aziz Ansari in Master of None con “New York, I Love You”, lasciando le luci della ribalta a donne e uomini senza voce ma, in questo caso, sono proprio i protagonisti di One Day at a Time ad essere lontani dalla consuetudine televisiva: Penelope è donna divorziata, madre e reduce, un accostamento di cui è difficile ricordare precedenti; nella storia tra Leslie e Lydia viene raccontato l’amore tra persone anziane, senza per questo escluderne la componente sessuale (la stessa Rita Moreno, al momento di accettare il ruolo aveva richiesto che il suo personaggio mantenesse una evidente esuberanza sessuale); Helena è un’adolescente gay ma la sua caratterizzazione non è riduttiva o limitata al suo orientamento sessuale. Persino personaggi più classici come Alex e Schneider riescono a ritagliarsi la propria originalità, proprio nel momento in cui si confrontano con lo stereotipo a cui fanno riferimento.
There’s something I want I can’t have for the rest of my life and something you don’t want you have to have for the rest of yours.
L’assenza di una linea narrativa orizzontale ad attraversare l’intera stagione (come lo era stato il coming out di Helena), ha reso i singoli episodi maggiormente indipendenti ed autoconclusivi. È da questa necessità che scaturiscono le principali difficoltà dello show, particolarmente evidenti nei momenti in cui il passaggio dal particolare al generale si fa artificioso e forzato. One Day at a Time è uno show politicamente e “eticamente” schierato e non c’è da stupirsi che cerchi di trasmettere un messaggio; il problema sorge quando questo messaggio è poco legato all’architettura del racconto. In “Locked Down”, per esempio, il tema relativo al controllo delle armi sembra inserito per una sorta di affinità tematica al pretesto da cui parte la trama verticale e porta ad un excursus didascalico scontato (almeno nell’ottica progressista dello show) e di cui non si sentiva il bisogno.
Anche in “Hello Penelope”, che resta uno dei migliori del lotto, sono evidenti i vincoli temporali stabiliti dall’autoconclusività: abituati a trame orizzontali che si prendono il loro tempo per lasciare indizi e sviscerare ogni circonvoluzione dell’animo umano, la caduta e la risalita di Penelope nell’arco di soli venticinque minuti, restituiscono l’impressione di una fretta furiosa e corrompono il lavoro sopraffino fatto sui dialoghi e sulle interpretazioni.
“Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della vita umana, ma nel dirlo mi mordo le labbra perché vorrei che non ci fossero più esiliati. […] È una contraddizione, cosa posso farci; amo il mio esilio, forse perché non l’ho cercato, perché non sono stata io ad inseguirlo. No, l’ho accettato piuttosto; e quando si accetta qualcosa di cuore, perché sì, costa molto rinunciarvi. (Maria Zambrano – Le Parole del Ritorno)
Nel suo gusto per la teatralità è il personaggio di Lydia a portare le cheloidi più crudeli derivanti dal processo di sintesi tra le tradizioni del paese d’origine e la cultura americana d’adozione. Nella toccante “Storage Wars” viene affrontata di petto la tendenza alla conservazione e all’accumulo ancora diffusa tra i nonni o tra le persone più anziane. Quando si parte dal nulla ogni oggetto acquisito può significare una gioiosa conquista ed è investito delle emozioni e dei ricordi a cui ha dato vita.
Nel mini arco narrativo relativo alla cittadinanza di Lydia siamo testimoni della vocazione intimista di One Day at a Time che, nella quotidianità delle piccole cose, riesce a far ridere e a commuovere raccontando i drammi, le follie e le esuberanze di una donna che, nonostante i decenni trascorsi, si sente ancora in bilico fra due mondi.
La coincidenza temporale tra la malattia e la cerimonia di ottenimento della cittadinanza americana non è casuale e il coma farmacologico si configura alla stregua di un rito di passaggio. Il confronto onirico con Berto è una sorta di prova in cui la donna subisce la tentazione del ritorno alle origini. La Lydia che si risveglia è una persona diversa, la cui identità è temprata nell’acqua gelida di una scelta definitiva.
Se da un lato “Not Yet” è il culmine narrativo del macrotema relativo allo sradicamento e alla ricostruzione dell’identità, dall’altro è l’occasione per attori e sceneggiatori di testarsi e fornire un saggio delle proprie abilità. Gli struggenti monologhi, oltre a rimpolpare il background di un personaggio classico come Schneider, sono le piccole perle frutto di una scrittura moderna ed estremamente attenta alla contemporaneità. A tutto ciò vanno aggiunte le splendide performance degli interpreti: nel processo di ridefinizione dei canoni della situation comedy, uno dei ruoli più importanti è il loro.
In definitiva la seconda stagione di One Day at a Time conferma in toto quanto fatto vedere nel 2017. Al divertimento che scaturisce da una creatività intelligente e progressista si somma la capacità di plasmare un racconto in grado di varcare i confini dello stereotipo, acquisire intensità e colpire lo spettatore a livello liminale, intaccandone dogmi e sicurezze. Una sitcom non deve solo far ridere. Può anche far riflettere.
Voto: 7½