
Oltre all’ormai noto Childish Gambino, è infatti importante includere il nome di una delle voci più riconoscibili e sorprendenti degli ultimi anni: nato dal mondo dei videoclip (di recente, si pensi a quello – meraviglioso – di “This is America”), il regista giapponese ha fin da subito portato un’impronta visiva alla serie che si può tranquillamente definire “d’autore”. L’unione delle invenzioni narrative e tematiche di Glover con lo stile riconoscibilissimo di Murai è quello che permette a questa seconda stagione di brillare: i rischi intrapresi sono innumerevoli, ma le storie sono così fluide che scorrono con una naturalezza quasi incomprensibile, mai appesantite dalle grandi implicazioni tematiche ed introspettive di cui si fanno portatrici.
Dopo una prima annata di rodaggio e definizione dei personaggi, dei legami tra essi e il contesto che fa da sfondo, la serie FX si è potuta tuffare di testa in quella vena sperimentale che già aveva caratterizzato alcuni interessantissimi episodi due anni fa. Il risultato è una collezione di segmenti da mezz’ora completamente spiazzanti, che abbandonano spesso e volentieri il legame con un protagonista quasi sempre assente per raccontare delle storie apparentemente (ed è qui che sta il trucco) slegate tra loro. Ma andiamo con ordine.

Da un lato troviamo l’autonomia di tanti racconti che si reggono sulla loro struttura autoconclusiva: e si pensa all’avventura da un barbiere insopportabile di Alfred, o alla surreale esperienza della coppia Earn e Van in una fiera tedesca, o all’incontro di Darius con un misterioso e inquietante amante della musica. Più di metà dell’annata è occupata da questo tipo di episodio, che beneficia perfettamente della cadenza settimanale (e della libertà creativa concessa da FX) per garantirne l’adeguata digestione. Dall’altra parte c’è invece la linea orizzontale di tutti questi personaggi messi insieme, che si riuniscono occasionalmente per sviluppare le loro relazioni uno con l’altro: in questo caso è la visione d’insieme a prevalere, aiutata da una struttura ciclica punteggiata di oggetti ricorrenti (la pistola d’oro che apre e chiude l’annata, ad esempio).

Ed è così che si spazia dall’ossessione per l’apparenza delle celebrità (la “compagna” di Alfred) al culto dell’immagine che ci viene costruito sopra (il cartone con Drake alla festa di Van), dal sacrificio visto come fonte di ispirazione musicale (Teddy Perkins e il fratello relegato in soffitta) al bullismo nelle scuole e le sue spesso sottovalutate tragiche conseguenze. Quello che collega gran parte delle vicende è il sottotesto musicale, il gigantesco meccanismo dello spettacolo e del rap che Glover conosce in prima persona e che in questa stagione viene scoperchiato con tutta l’onestà possibile.
Ma è davvero tutto qui? Atlanta si ferma davvero alla “semplice” messa a nudo di un’industria che, in fin dei conti, si basa su alcuni principi già visti e rivisti al cinema e in televisione? Ovviamente no. Ed è qui che ci aiuta la visione d’insieme, la componente orizzontale di cui si parlava prima.

Non bisogna poi dimenticarsi della componente etnica e culturale che ha fatto la forza della serie fin dall’inizio. Perché la grande impresa di Donald Glover sta nella sua capacità di inquadrare la musica in un contesto ben più ampio, che parla di razzismo ed identità in un modo che pochissimi altri sanno eguagliare in televisione. Questa Robbin’ Season, dopotutto, ha preso il fenomeno del boom di furti e crimini per rievocare l’atmosfera di sfiducia e pericolo in cui sia i protagonisti che Glover stesso si identificano: il valore del nome di Paper Boi conta solo fino al punto in cui non ci si accorge che il suo orologio può essere rubato e venduto, così come i soldi guadagnati da Earn non valgono niente se comunque manca un riconoscimento sociale di fondo. Ed ecco che allora il ricongiungimento dei due cugini dopo il litigio pone le basi nella solidarietà contro questa violenza, nella necessità di stare insieme di fronte alle enormi conseguenze che la disuguaglianza e la ghettizzazione in America continuano a provocare.
Atlanta chiude la sua seconda stagione con un enorme salto in avanti: non è più la grande novità alla sua prima stagione e non è più neanche qualcosa da accostare a certe influenze o modi già visti di fare televisione. Quest’anno, Donald Glover e Hiro Murai ci hanno dimostrato che la loro è una serie d’autore fatta e finita, capace di spezzare e reinventare regole senza preoccuparsi di compiere eventuali passi falsi: visti i risultati, non è un rischio che sembrano neanche lontanamente correre.
Voto: 9+

Maledetto Glover/Gambino/Calrissian, mi costringi al coming-out: io ti amo! E non da oggi. Le emozioni che smuovi ogni volta che vedo e sento le tue opere non le provavo dall’adolescenza e Atlanta è un incredibile specchio che ci riflette (tutti) come nessun altro riesce a fare. Atlanta andrebbe mostrata nelle scuole, è pura filosofia alla portata di ognuno. THIS IS THE WORLD.
Splendida recensione…season 2 semplicemente MEMORABILE…