
Non c’è solo questo: ovviamente e come sempre le grandi idee nascono da più fonti e da persone capaci, come Ryan Murphy, di intercettare la necessità di raccontare una storia, fonderla con la propria idea e – ma questo non è affatto scontato – decidere di fare un passo indietro per permettere a chi sta al centro di quelle storie di raccontarle dal loro punto di vista.
È così che nasce Pose: dalla fusione di un’illuminazione di Murphy – raccontare la scena delle ballroom come mostrate da Livingston, ma anche la crescita della Trump Organization – con quella di Steven Canals, un giovane sceneggiatore queer afro-latino, che nel 2016 gli aveva fatto arrivare la storia di un ballerino, Damon, che veniva salvato da una donna trans, Blanca, dopo essere stato cacciato di casa in quanto gay. A scavare ancora di più in questa storia dovevano esserci altri punti di vista coinvolti, ed è così che si uniscono alla produzione Janet Mock – la prima donna trans di colore a diventare autrice, poi produttrice e anche regista (del sesto episodio) –, la stessa Jennie Livingston come consultant producer e Our Lady J, donna trans nota come cantante, ma anche produttrice e sceneggiatrice televisiva (Transparent). Qual è il risultato di questo melting pot sociale, narrativo e culturale?
The Category Is…

A completare questo quadro ci pensa una scrittura intelligente e realistica, che rifugge da qualunque stereotipo non rigettandolo, ma al contrario mettendolo in scena insieme al suo opposto; come a dire: “Non negheremo che esista un certo genere di persone; ma ci rifiutiamo di mostrare un mondo in bianco e nero, in cui il genere e la sessualità di una persona, qualunque essi siano, conducano ad obbligatori comportamenti sociali”. Sembra scontato, ma non lo è affatto: presentare le Mother come donne salvifiche, ma anche come egoiste ed egocentriche, capaci di redimersi senza per questo snaturarsi (come accade nell’arco narrativo di Elektra) non è cosa da poco; non lo è nemmeno rappresentare il conflitto tra gay e persone transgender, come accade nella storyline di Blanca e del bar ad inizio stagione. I frequentatori del locale sono persone che vivono il rifiuto da parte del mondo etero-bianco, ma questo non impedisce loro di essere gretti e meschini con le donne trans, ultimo vero gradino dell’accettabilità sociale.
E dall’altra parte, nel mondo normo-bianco, ci sono persone come Patty, che per capire il marito riesce solo a pensare ad un trauma infantile – perché nella sua testa non può esistere altra giustificazione; o che davanti ad Angel pretende di vedere la prova che lei sia una donna trans, di vedere una parte privata di un’altra persona come se fosse un suo diritto.
Ma ci sono anche persone come l’infermiera dell’ospedale di Costas, Judy (una splendida Sandra Bernhard), o l’urologa che accoglie Elektra e la convince a sottoporsi all’intervento – It’s never a bad decision to choose yourself –, a rappresentare l’altra parte, quella che non giudica una persona dal suo genere o dalle sue origini.

Live!
I grigi esistono ovunque, si diceva, tranne in un punto: tutte le persone che vivono nelle varie House e di cui scopriamo il passato sembrano condividere la stessa, identica storia di rifiuto, che viene raccontata più volte come a farcene sentire l’ineluttabilità. La scoperta di sé, i primi tentativi di gestire la questione di nascosto, e poi i genitori che in un modo o nell’altro vengono a sapere, e cacciano il figlio di casa; e poi le notti sulle panchine, quando non nei peep-show o a prostituirsi. Tutti rivelano una storia simile, e tutti finiscono all’interno di una House, che nasce esattamente con questo intento: quello di creare una famiglia e dei legami, delle reti di supporto e di aiuto per questi figli di nessuno rifiutati dal mondo, che riescono a sentirsi se stessi solo sotto le luci di una sala da ballo.

E come in ogni dramma familiare che si rispetti ci sono i conflitti, le difficoltà genitoriali, i dubbi su cosa si sta facendo bene o male. Ci sono gli errori e il perdono, come quello di Blanca nei confronti di Elektra in “Mother’s Day”, in cui la morte della madre biologica e il rifiuto da parte dei fratelli la portano ad andare dalla sua madre putativa semplicemente per esserci nel giorno della sua transizione – e non è certo un caso se questa puntata si apre con il flashback di Blanca accolta in casa Abundance.

La malattia di Costas e l’ultima fase del suo rapporto con Pray sono tra i punti più alti della serie, in cui la paura di morire si fonde con la stanchezza e il dolore di continuare a perdere gli amori della propria vita; in cui una canzone suona in continuazione per ricordare un tempo che sembra antico – quello in cui si poteva ballare, stare insieme e fare l’amore per tutta l’estate con una stessa canzone, senza la paura costante di poter morire. “Non sapranno mai cosa voleva dire”, dice Pray a Costas, parlando di un mondo perduto che è accaduto sette e 700 anni prima al tempo stesso.
Non rimane che vivere il presente, i rapporti che ancora ci sono e rimangono: è questa la base dell’amicizia tra Blanca e Pray, che finiranno col rivelare ad un’altra persona, oltre che reciprocamente tra di loro, di avere l’HIV proprio nella stessa puntata, a suggello di un rapporto che viaggia davvero sugli stessi binari.
Work!

Nell’ultima puntata, “Mother of the Year”, tra le House citate a fine episodio troviamo la House of Xtravaganza, in una coincidenza che non può essere casuale rispetto a quello che accade ad inizio episodio, quando Blanca chiede a Elektra se pensa di poter continuare a vivere così senza finire morta ammazzata entro un anno. Non è un caso perché una delle protagoniste di Paris Is Burning si chiamava Venus Xtravaganza, dal nome della sua House di appartenenza; intervistata durante le riprese, raccontò più volte dei lavori che faceva per sopravvivere, che includevano la prostituzione. Prima ancora che il documentario fosse concluso venne trovata morta ammazzata, strangolata da un assassino che non fu mai trovato; per questo motivo, Livingston incluse nei filmati le reazioni della comunità alla notizia della sua morte, che si trovano proprio verso la fine del documentario.
Sapendo questo, non può che colpire la scelta narrativa di far cadere proprio lei, Elektra, la donna che sembra cavarsela sempre solo grazie al suo essere se stessa, e che invece, nel giro di pochi minuti di narrazione, rischierebbe di fare la stessa fine di Venus, se non ci fosse Blanca a salvarla. Perché in fondo nessuno ora è al sicuro: non lo è di certo Papi, coinvolto in giri di spaccio; ma potrebbe esserlo in futuro Damon, e forse anche Ricky – e questo solo grazie alla determinazione di Blanca, vera madre dell’anno.

Pose!
Circa al quarto minuto di Paris is Burning viene data una delle definizioni più complete delle ballroom, ma soprattutto di quello che rappresentavano per persone che, in qualunque altro contesto, venivano costantemente emarginate: “It’s like crossing into the looking glass in Wonderland. You go in there, and you feel… you feel 100% right… as… of being gay. And that’s not what it’s like in the world. […] You know, it should be like that in the world.”
Mettendo in scena una ballroom solo un pochino più glam dell’originale per esigenze televisive, ma rimanendo fedele a tutto il resto, Pose ci racconta cosa significhi per quelle persone abitare quel luogo; cosa voglia dire mostrare se stessi in modi che in qualunque altro posto sarebbero rifiutati senza condizioni; cosa significhi non tanto “sentirsi giusti”, quanto non sentirsi sbagliati.

E poi, come si riportava nella citazione poco sopra, entrare nella ballroom era come attraversare lo specchio di Alice e finire da un’altra parte: un mondo in cui ci si sfida a colpi di “voguing” e di “pose”, in cui si insegue la moda dalle riviste e al contempo la si produce, data la necessità di diventare sempre più competitivi, convincenti, con il sogno di lasciare l’intera sala, i giudici e persino il presentatore senza parole – e infatti nel documentario la stragrande maggioranza delle intervistate dichiarava il sogno nel cassetto di diventare una modella.
Che cos’è, quindi, Pose? È tutte queste cose, tutte insieme. Di base le categorie, come dice la sigla, sono davvero solo tre – Live! Work! Pose! –, ma contengono al loro interno tutto ciò che l’umanità, in quel periodo storico, in quella città, in quell’ambiente, aveva da raccontare. Se a livello tecnico qualche scelta può aver fatto storcere il naso – basti pensare a certi momenti musicali o di ballo forse fin troppo lunghi, o ad una certa prevedibilità nelle strutture delle puntate, che bene o male iniziano e finiscono tutte nella ballroom –, per il resto non si può che lodare un progetto simile, capace di rappresentare in modo realistico, eppure sempre con profondo rispetto, una parte di storia di una comunità come quella LGBT, le discriminazioni subite, i sogni condivisi, e il contesto che li ha, a seconda dei casi, accolti o rifiutati.
Voto: 9

Grazie mille per la recensione, Federica, che mi ha fatto scoprire questa gemma. Sono rimasto davvero impressionato dall’umanità che gli autori e gli attori (e tutti gli altri) sono riusciti a portare in scena in questa serie. E’ un’umanità di reietti certo, ma senza alcun pietismo, persino nei momenti più dolorosi. Davvero grazie.
Grazie a te, Genio! Sono contenta di averti ispirato a vederla (anche se con una recensione stagionale, che quindi ti avrà spoilerato qualcosa, ma che di sicuro non ha tolto nulla ad una stagione davvero bellissima), e soprattutto sono contentissima che ti sia piaciuta! È una serie che per me dovrebbero vedere TUTTI, proprio per la sua capacità di rappresentare un’umanità che è esattamente come la descrivi: senza pietismi, ma anzi, ricca di voglia di vivere, di amor proprio e di amore nel senso più vasto del termine.
Come avrai capito dalla recensione ? consiglio il documentario di Livingston, lo trovi su Netflix. Davvero imperdibile!
Ti confesso una cosa: ho letto le prime righe e il tuo voto. Poi l’ho recuperata, e solo dopo averla vista tutta (divorata, in effetti), ho letto tutta la tua recensione. Ora mi costringi anche a recuperare il documentario in questione.
Ah meglio allora! Così non ti sei rovinato la visione ?
Le nostre recensioni spoiler free sono solo quelle consiglio (le riconosci perché hanno un titolo elaborato senza riferimenti a stagioni o puntate, e non hanno voto) e i pilot; tutte le altre ovviamente sono spoilerose quindi hai fatto benissimo!
Il documentario dura un’ora e un quarto, poco più di una puntata di Pose, quindi super fattibile… Fammi sapere se lo vedi e cosa ne pensi! 😉
Alla fine ho visto Paris is burning, completando in qualche modo l’opera. Certo, la ballroom di Pose è un’altra cosa, eh? La fiducia nel futuro, delle volte alla Candido, è toccante. Grazie del consiglio 🙂
Eh sì, la ballroom era meno curata, ma se ci pensi è anche abbastanza normale, i soldi quando c’erano andavano nei costumi e nei premi, il resto è tutta atmosfera! ? Sono contenta che ti sia piaciuto, è un documentario che dovrebbero conoscere in tanti proprio per i messaggi che trasmette. Quindi grazie a te per aver seguito il consiglio! ?
Ciao! Splendida recensione. Ho guardato la serie in full immersion, dopo aver visto in tempi non sospetti Paris is Burning. Ho trovato alcune dinamiche leggermente didascaliche, ma nell’insieme ho trovato la serie bellissima. Ha avuto la capacità di visualizzare.un mondo ed un’epoca in modo fantastico e travolgente
Grazie Maddi! Sono d’accordo, a volte c’è stato qualche eccesso, ma nel complesso appunto assolutamente accettabile. Hanno fatto davvero un lavoro bellissimo!
Un bel macigno! Il nome dice tutto (che geni!): posare, atteggiarsi, ostentare, ma anche fingere. E poi quella non casuale assonanza con positivo/positività che qui ha tutto un altro significato. Bella roba, tanta emozione.
Eh già, davvero tante emozioni! Già dal titolo si capiscono moltissime cose, hai ragione ?