
Dall’urbanistica immaginaria di Calvino fino a Peyton Place, la creazione di luoghi inesistenti per ambientare le proprie storie è un trope che attraversa la letteratura di ogni tempo, ma è particolarmente congeniale agli scrittori del fantastico e dell’orrorifico, dato che consente di avere a disposizione luoghi dalle qualità peculiari, che non sono costretti a condividere il tempo e lo spazio della realtà e dunque possono piegarsi alle necessità narrative e metaforiche dell’autore.
Spesso, la loro funzione è quella di archetipo della città stessa, che ne raccoglie tutte le caratteristiche necessarie a comporre un micro-universo indipendente in cui la sospensione dell’incredulità funzioni abbastanza da giustificare gli eventi oscuri e misteriosi che vi accadono, ma mai così staccato dalla normale geografia (naturale, architettonica e umana) delle città reali da non poter ambientare al suo interno interazioni credibili e personaggi identificativi per il lettore.
Castle Rock è un esempio perfetto in questo senso, che raccoglie in sé tutto il bene e il male della visione kinghiana del Maine (luogo in cui peraltro lo scrittore vive) e serve a King per raccontare eventi soprannaturali che convivono con l’andamento quotidiano delle cose. Il vero segreto del fascino dello scrittore è infatti la sua capacità di legare il fantastico a traumi e orrori molto più reali come i delitti del passato, i traumi infantili, il razzismo e il male che si nasconde dentro le persone all’apparenza più normali e che solo occasionalmente prende la forma di un demone o di un clown che rapisce i bambini. Più spesso, nella letteratura di King, gli eventi soprannaturali servono da causa scatenante per conflitti umanissimi: se pensiamo al supermercato di The Mist o alla maledizione di Derry in It, è chiaro che l’interesse dello scrittore non sta soltanto nel far saltare il lettore dalla paura, ma anche nello spiegare come l’orrore entri nelle nostre vite mai davvero dall’esterno. Lo stratificarsi delle storie di King in molteplici romanzi all’interno di una comunità complessa e stratificata risponde innanzitutto a questa funzione: creare un ambiente familiare al lettore, credibile e spesso quasi affettivo, per meglio sostenere gli sviluppi horror successivi; e il grande difetto di molte trasposizioni televisive e cinematografiche del Re è stato proprio sottovalutare l’aspetto umano e la costruzione dei personaggi concentrandosi sull’idea horror, senza capire che il funzionamento narrativo dell’orrore kinghiano è legato a doppio filo al racconto del territorio e all’umanità che lo ignorano, lo subiscono o addirittura lo causano, attraverso lo sviluppo delle psicologie dei personaggi.

Si parte dalla prigione di Shawshank, intorno alla quale ruota non solo la vicenda soprannaturale ma anche quella umana, così come quella collettiva: da cittadina idilliaca degli anni ’80 e ’90 Castle Rock è diventata lo specchio della crisi economica che affligge molti piccoli centri americani, con il carcere come unica fonte di sostentamento economico per gran parte della popolazione e ben poca speranza di riportare in vita il ciclo manifatturiero che aveva caratterizzato l’economia florida della città, luogo nel quale sono svanite anche anche le occasioni di interazione umana. La Castle Rock della serie è quindi molto diversa da quella che avevamo conosciuto in Cose Preziose, anzi è molto più vicina alle atmosfere angosciose della Derry di It e come questa porta su di sé il peso degli errori del passato.
Un tempo che nella serie porta il nome di Alan Pangborn, ultimo sceriffo della cittadina creato dalla penna di King, interpretato da Scott Glenn (indimenticabile in The Leftovers) ma che ci viene introdotto prima in una sua versione del 1991, nel momento in cui, cercando il piccolo Henry Deaver (scomparso da giorni nei boschi con una temperatura sottozero), lo ritrova misteriosamente in perfetta salute e senza un graffio. L’evento del passato fa da prologo al presente in cui lo stesso Henry, ormai cresciuto e lontano, sarà richiamato a fare i conti coi fantasmi di una volta – il trope kinghiano per eccellenza – tornando a Castle Rock, chiamato da un giovane sconosciuto ritrovato dei sotterranei della prigione dopo il suicidio dell’ex direttore Dale Lacy (Terry O’Quinn).

Oltre al già nominato Scott Glenn, alla veterana di King Sissy Spacek e alla straordinaria Jane Levy (che gli amanti dell’horror conoscono come musa di Fede Àlvarez e gli appassionati di serie come protagonista di Suburgatory), la scelta degli attori è già di per sé un manifesto programmatico di quel che la serie vuole essere: scordatevi le bellissime e i muscolosi di Under The Dome o i ragazzini da teen drama, qui ci sono mostri sacri come Spacek e Glenn, volti che vengono dall’indie come Melanie Lynskey, Bill Skarsgård (che ormai in fatto di horror è una certezza), facce provenienti dalle serie tv più prestigiose come Noel Fisher, Chris Coy, Ann Cusack, Terry O’Quinn, Allison Tolman e lo stesso protagonista André Holland che aveva già dato ampia prova della sua bravura in The Knick.

Attraverso la complessità di una trama che in tre episodi ha svelato pochissimo di sé e scelte registiche e di casting che concorrono a dare al tutto una profondità evidente fin dall’inizio, Castle Rock potrebbe essere la serie che i fan di King aspettavano da un’eternità, capace di rendere giustizia alla qualità della scrittura del Re e dare compimento a un progetto espanso sull’universo kinghiano, un materiale ricchissimo ed estremamente fertile che aspetta da tempo qualcuno in grado di dargli l’importanza che merita.
Voto episodio 1: 7 ½
Voto episodio 2: 8
Voto episodio 3: 8+

Noel Fisher non è solo una faccia di una serie famosa ma un personaggio bellissimo (Mickey) in Shameless……
Brava, condivido tutto della recensione. Fino a qui mi ha convinto, e il cast è davvero ottimo!