Dopo otto anni, dopo aver affrontato di petto le elezioni americane, può Ryan Murphy, nel frattempo impegnato con il trasferimento a Netflix, dar vita ad una stagione di American Horror Story in grado di non far sentire gli anni che passano?
Ad essere del tutto sinceri, considerando soprattutto l’idea alla base di questa stagione, non si può che avere più di qualche dubbio. Le informazioni su questa annata sono in effetti poche (e, come vedremo, la premiere non aiuta poi tantissimo), ma quello che è già ben noto è che si tratta di un crossover tra la prima stagione, Murder House, e la terza, Coven, tra le più apprezzate dal pubblico americano. Voler unire due stagioni di successo è al contempo un rischio e una debolezza: da un lato c’è la volontà di giocare facile, riportando sullo schermo personaggi e storie già note ed amate; dall’altro, però, è anche vero che dar vita ad una narrazione che possa sostenere un’intera stagione è reso ancor più difficile proprio dal gioco di incastri che rappresenta l’unire in modo coerente tutti questi piani paralleli.
Questo episodio fa una cosa che funziona molto bene: non parte né da Murder House né da Coven, ma si mantiene sulle proprie gambe e crea una sceneggiatura che parte proprio dal volersi autosostenere. Il problema, al massimo, è che tutto questo è gestito malamente, con una premiere che si mostra affaticata sin dalle primissime scene. L’idea dell’apocalisse nucleare è la naturale conseguenza di quello che è stato raccontato nello scorso Cult, in un certo senso, nonché una delle maggiori paure della società contemporanea, in questo clima sociopolitico di estrema tensione. L’idea è, purtroppo, sviluppata in modo troppo veloce, senza né quella follia e ironia narrativa che contraddistingue la scrittura di Murphy (forse con l’eccezione di Billy Eichner), né con una cura narrativa tale da creare personaggi reali. Qui i nostri si ritrovano alla fine del mondo del tutto disinteressanti dei loro rapporti umani, indifferenti pressoché a qualsiasi cosa stia accadendo intorno e (in alcuni casi persino letteralmente) trascinati da un passaggio all’altro, da una necessità di trama alla seguente. Gli unici due pesci fuor d’acqua in questo calderone, Emily e Timothy, sono anche gli unici che paiono quelli dal maggior potenziale, mentre della diva o del parrucchiere con nonna famosa (Joan Collins, che al momento pare sprecata) frega assai poco.
Tutto questo avrebbe potuto essere rapidamente messo da parte se a queste prime difficoltà si fossero contrapposte delle situazioni nuove e riuscite nella seconda parte; purtroppo questo non avviene, anzi. L’introduzione dei personaggi della Bathes e di Sarah Paulson non ha alcun mordente e l’intera vicenda della prigionia nell’Avamposto non ha connotati forti a sufficienza da lasciarci prospettare una evoluzione molto più riuscita in futuro; è certo curioso quello che si sta mettendo sul tavolo, soprattutto il gioco sadico ai danni degli “ospiti”, ma è tutto così vago da non fare davvero presa. Per carità, lo stile di scrittura di Ryan Murphy si evidenzia e intravede in molte occasioni, ma stavolta non sembra supportarsi a sufficienza e non bastano i grandi nomi attoriali a reggere una sceneggiatura troppo incerta. Mancano anche quelle trovate registiche o quella bellezza scenografica che in altri casi, soprattutto in Hotel, avevano avuto modo di risollevare momenti meno riusciti. Non bisogna sottovalutare, tuttavia, quanto l’idea delle mutazioni genetiche e dell’orrore della guerra nucleare possa in effetti dire negli episodi futuri, aprendo le porte ad un tipo diverso di horror (che in questo episodio francamente non esiste) più canonico e più ricco.
Al momento, dunque, il vero perno su cui sembra reggersi gran parte dell’episodio riguarda, come al solito, il cast attoriale di grandissimo profilo. Se da un lato si mantiene l’idea di utilizzare più o meno gli stessi attori in ogni stagione, è la composizione stessa di questa annata a prospettare le novità più attese, ovvero l’apparizione di più personaggi interpretati dai medesimi attori. E dunque Sarah Paulson, Evan Peters e Taissa Farmiga si ritroveranno ad interpretare almeno due personaggi a testa (i primi due addirittura tre), per non parlare poi dell’attesissimo ritorno di Jessica Lange, assente da tre stagioni. Nulla di tutto questo appare nella premiere: è vero che sia la Paulson che Evans sono ben presenti, ma per entrambi si tratta di interpretare personaggi nuovi, e al momento privi di alcun reale mordente. L’unica chicca è proprio il personaggio che appare al termine dell’episodio, il più esplicito collegamento con Murder House.
Che cosa possiamo dunque aspettarci da questa stagione? American Horror Story è forse la serie più incostante che esista in televisione. Spesso Murphy ha avuto una intuizione geniale intorno alla quale ha creato la stagione, con una premiere particolarmente riuscita, ma ha bruciato le idee migliori troppo in fretta e la narrazione ne ha risentito al punto da chiudersi in un debole finale (destino che ha riguardato anche Coven, che qui in parte ritroveremo). C’è dunque da sperare che questo inizio così debole sia solo un preludio ad una stagione più ragionata e compatta, ma non ci si facciano troppe illusioni: questa premiere è probabilmente la più debole che American Horror Story abbia saputo darci finora e soltanto la certezza che rivedremo filoni narrativi conclusi più di cinque anni fa può venirci incontro e regalarci quell’attesa che “The End” ha quasi dissipato.
Voto: 5
Ciao Mario, indipendentemente dal fatto che a me la stagione 8 è piaciuta fin da subito, io incoraggio comunque ad andare avanti (o meglio, non bocciarla a priori dopo il primo episodio) questa stagione ha molto da dire.