Arrivato alla quinta stagione, quello che è probabilmente il migliore dei prodotti originali Netflix non sembra invecchiato di un solo anno. BoJack Horseman è ancora uno show innovativo, carismatico, personalissimo e più che mai attuale che riflette, nel corso di questa annata, su questioni di dipendenza, elaborazione del dolore e del lutto e di identità.
Come ci aveva abituati negli scorsi anni, anche questa quinta annata, parallelamente ad alcuni filoni narrativi che permettono di trattare in modo lucidissimo e puntuale problemi d’attualità legati all’America hollywodiana, prosegue nel racconto dei suoi personaggi che escono anche da questa stagione più maturi, più caratterizzati, più capienti. Vediamo allora esplorate tematiche legate al #metoo e al femminismo quali la condizione, la visibilità, il credito della donna negli ambienti televisivi e più in generale del mondo dello spettacolo; vediamo smascherate diverse dinamiche che legano sessismo e potere anche in ambito aziendale nello spazio della vicenda (come al solito squisitamente assurda e rocambolesca) del sex-robot di Todd; e vediamo parodiato, stavolta, nella serie televisiva “Philbert”, il poliziesco, un genere che negli ultimi anni si è dimostrato singolarmente vivo e protagonista di una lunga serie di riflessioni e riletture critiche, se non altro per la forte presenza di topoi mediamente misogini e propensi alla mascolinità tossica nel modello tradizionale.
Il lavoro sui personaggi viene fatto, invece, interrogandosi quest’anno forse più che in altri su questioni di identità, di appartenenza e di crescita. Bellissimo l’episodio dedicato a Diane e all’esplorazione della sua doppia identità culturale, tematica che gli autori hanno sempre esitato ad affrontare (probabilmente per le accuse di whitewashing suscitate dal fatto che un personaggio vietnamita-americano sia interpretato da Alison Brie), ma che dà senza dubbio alla figura della scrittrice ancora più spessore e umanità. Todd continua nel suo percorso formativo in rapporto soprattutto alla propria asessualità e, dopo un episodio che ricalca in modo esilarante gli schemi della commedia degli equivoci, capisce di non avere molto in comune con la compagna oltre al proprio orientamento sessuale e continua a cercare altrove, acquistando sempre più sicurezza e auto-consapevolezza ma senza perdere i tratti che lo rendono un personaggio tanto adorabile.
Come viene più volte puntualizzato anche dalla serie stessa (“You can’t have happy endings in sitcoms, because if everyone’s happy, then the show would be over” dice BoJack nel meraviglioso episodio stand-up dell’elogio funebre), a nessuno dei personaggi verrà regalato (non ancora) un happy ending, non a Mr. Peanutbutter che si lancia nell’ennesimo matrimonio precoce, non a Princess Carolyn che non sembra ancora decisa a lasciarsi indietro le brutte abitudini e vivere più per sé o per il bambino che vorrebbe adottare e meno per gli altri, e non a BoJack che nel corso di tutta la stagione non fa che fuggire, come sempre, i propri problemi andando verso un epilogo tiepido, in un centro di recupero.
Mentre parla di tutte queste tematiche la creatura di Raphael Bob-Waksberg non smette di essere genuinamente divertente, stilisticamente impeccabile e assurdamente ricca di e attenta ai dettagli, tanto che la maggior parte dei visual jokes talvolta sfuggono anche alla seconda visione. Come viene fatto notare da Matt Zoller Seitz su Vulture, sebbene il personaggio di BoJack sia sotto ogni aspetto un “Difficult Man”, un antieroe televisivo con cui il pubblico può empatizzare per il fatto di essere raccontato drammaticamente in tutte le sue complessità e sfaccettature, BoJack Horseman (ed è lo show stesso a prendere posizione in merito) è invece un “Difficult Show” che si preoccupa di mettere continuamente in relazione il Difficult Man con punti di vista e realtà alternative, che lo mette davanti alle sue responsabilità, alle conseguenze delle sue azioni e alle sue occasioni di autocritica e ricostruzione. Ed è uno show difficile perché è formalmente complesso, stratificato, perché richiede allo spettatore di prestare attenzione e di porsi domande sulla propria condotta, perché non ha paura di distinguere fra intelligenza e saggezza, fra soluzione facile e soluzione efficace – e può fare tutto questo nella forma agrodolce del dramedy anche perché è scritto davvero bene.
Da questo punto di vista la serie ricorda da vicino, più che altri dramedy, l’universo televisivo creato da Dan Harmon, Community e Rick & Morty su tutti: oltre che per l’evidente gusto citazionista e metanarrativo, per la capacità condivisa di scavare in profondità nella psicologia dei propri personaggi e di privilegiare, nel farlo, una struttura narrativa non lineare ma, anzi, spesso reinventata, scomposta, particolare.
BoJack Horseman riesce, infatti, a fare un lavoro eccellente sul piano orizzontale anche in forza dell’audacia che dimostra su quello verticale, del singolo episodio: i già citati episodi del viaggio in Vietnam di Diane (5×02 “The Dog Days Are Over”), dell’elogio funebre (5×06 “Free Churro”) così come quello degli Halloween di Mr. Peanutbutter (5×08 “Mr. Peanutbutter’s Boo”) o quello raccontato dal punto di vista di due personaggi secondarissimi come la terapista di Diane e la mediatrice sul laboro di Todd (5×07 “INT. SUB”) sono episodi memorabili, forti, particolari, compatti ma allo stesso tempo così generosi nei confronti della trama generale da risultare insostituibili.
BoJack Horseman si riconferma, alla sua quinta stagione, una serie divertentissima, curatissima, capace di (auto)riflettere come nessun’altra sui meccanismi televisivi e sul mondo dello showbusiness hollywoodiano in generale con tutti i suoi fantasmi, prodotti, trappole e contraddizioni.
Voto: 9
Assolutamente d’accordo con la recensione ! Alla sua terza stagione Bojack Horseman è più vivo e geniale che mai. I suoi personaggi sono di una umanità spiazzante.
Ottima recensione, Irene, brava!
La quinta stagione è stata veramente bella!