La première della quarta stagione di Outlander è esemplificativa del percorso di una serie che pur rinnovandosi ogni anno, non tradisce mai le aspettative dei suoi spettatori. Romantica, intensa, narrativamente ricchissima, in grado di introdurre in poche decine di minuti un intero nuovo mondo (anzi, Nuovo Mondo con la maiuscola) e lanciare i suoi protagonisti nel centro dell’azione, la serie rimane fedele alla sua missione di scandagliare l’infinita varietà delle emozioni umane intrecciandole con la storia di Claire e Jamie, e con la Storia nel suo senso più ampio.
Alla luce di questo primo episodio infatti non sembra così azzardato, pur trovandoci soltanto all’inizio di questa stagione, dire che Outlander è riuscita brillantemente ad uscire dalle piccole secche di un’annata precedente non del tutto creativamente riuscita (soprattutto per via di una seconda parte sbilanciatissima rispetto alla prima). Ci è riuscita facendo seguire al cliffhanger del finale non una pedissequa narrazione degli eventi ma ricongiungendoci a Claire e Jamie direttamente in medias res, in North Carolina: non sulla spiaggia su cui li avevamo lasciati, ma ai piedi di una forca, in attesa dell’esecuzione di Gavin – compagno di Jamie sopravvissuto alle prigioni scozzesi ma non alle donne americane, a quanto pare.
Siamo, per quanto riguarda i libri, dalle parti di “Drums of Autumn”, dunque circa nel 1767, a pochissimi anni dalla Rivoluzione Americana ed è già intuibile che l’impatto con l’America segnerà le tematiche della quarta stagione quanto l’impatto con la Francia aveva segnato la seconda: l’essere “stranieri in terra straniera” è un leitmotiv che la serie utilizza spesso come veicolo di azione e avventura ma anche come mezzo per mettere Claire e Jamie di fronte all’elaborazione di una cultura differente che diventa uno strumento di crescita e consolidamento della coppia.
Così come le trame di Parigi erano state il mezzo per far salire a galla i traumi subiti in Scozia e per far fare alla relazione uno scatto di maturità, anche l’approdo negli Stati Uniti pare essere un escamotage narrativo in grado di fornire quell’elemento di caos indispensabile a far evolvere la relazione e di conseguenza, l’intera trama di Outlander. D’altronde, sarebbe un po’ noiosa l’idea di raccontare semplicemente la storia di due persone che si adorano, si rispettano e si desiderano da più di 20 anni senza particolari traumi o ostacoli (per quanto nella vita reale la cosa suoni decisamente appetibile, siamo pur sempre in territori di intrattenimento televisivo), motivo per cui la strategia della serie è quella di fondare le proprie basi su un amore senza compromessi né indecisioni e su queste fondamenta, porre la coppia in costante confronto con un mondo reale al contrario pieno di imprevisti e ostacoli, nonché letto in maniera diametralmente differente da ciascuno dei due.
Perché nonostante a questo punto della storia la vediamo a proprio agio nell’ambiente che la circonda, Claire è pur sempre una donna del Ventesimo secolo immersa in una realtà che precede di circa 200 anni il suo presente, e Outlander è sempre e comunque una storia raccontata dal suo punto di vista. Pur non ponendosi mai in maniera competitiva o polemica rispetto alla realtà di Jamie, è comunque Claire l’esploratrice vera, l’occhio estraneo che analizza una realtà di cui non ha esperienza ma della quale conosce, paradossalmente, già gli epiloghi e le conseguenze.
In questa première la conoscenza di Claire rappresenta un fattore importantissimo nel decidere le sorti del gruppo composto dalla coppia e da Ian, Lesley, Fergus e Marsali. Anche se l’obiettivo iniziale di tutti è quello di tornare al più presto in Scozia, le promesse del Sogno Americano sono un elemento di attrazione fortissimo che solo la consapevolezza di Claire che il paese si trova sull’orlo di una guerra riesce a temperare, anche se per poco. Al momento della decisione reale, tutti decideranno di restare e tentare la fortuna in America, esattamente come hanno fatto fatto Claire e Frank molti anni prima, o meglio molti anni dopo, ma al contrario delle promesse economiche e sociali che guidano le decisioni degli altri per Jamie e Claire la decisione è più complessa, non definitiva e molto più legata al desiderio di Jamie di creare una connessione profonda, sia pure a distanza di centinaia di anni, tra sé e la figlia Brianna. Al netto delle paure di Claire di ritrovarsi nel mezzo di un altro conflitto, la scelta è (come sempre in Outlander) quella più affine al desiderio di entrambi, che va nella direzione del riparare almeno in parte la ferita profonda della separazione. Ricominciare, in un luogo che offra a entrambi la possibilità di una vita diversa.
Il viaggio che inizia, e che porterà Jamie, Claire e Ian a River Run, la tenuta di Jocasta (zia di Jamie), non è solo fisico ma anche emozionale, in linea con la strategia che caratterizza la serie da sempre, ovvero l’utilizzare il canovaccio del feuilletton d’amore e avventura per dipingere il più ampio spettro possibile dei sentimenti umani. Così abbiamo da una parte Claire che condivide il trauma dell’annegamento con Stephen Bonnet, fuorilegge che i lettori della Gabaldon conoscono già come villain ma che si presenta sotto le mentite spoglie di amico di Gavin; abbiamo Jamie e Claire che condividono come sempre momenti di confidenza, amore e attrazione dalle nuance sempre simili, eppure così differenti col passare degli anni e col maturare della relazione; abbiamo la possibilità di intuire alcuni dei temi che si intuiscono saranno portanti per la stagione, come il conflitto tra la conquista di un mondo dalle infinite possibilità e il destino delle popolazioni indigene, così come tra il desiderio di libertà dell’uomo bianco e la pratica dello schiavismo che consente questa libertà ma al tempo stesso la contraddice così palesemente.
Ma soprattutto, abbiamo la possibilità di assistere a un dialogo tra Ian e Jamie che non somiglia a nulla di ciò che abbiamo visto sugli schermi fino ad oggi, una scena che non stupirà i fan della serie dato che la volontà di esplorazione della mascolinità in Outlander è chiara e ben nota fin dalla prima stagione, ma che anche a un osservatore casuale non può che suonare rivoluzionaria e coraggiosa nella voglia di sovvertire le convenzioni e stimolare una discussione sulla violenza sessuale da un punto di vista maschile. Durante la sepoltura di Gavin, infatti, la memoria di Ian finisce per riportarlo al trauma della violenza subita durante il rapimento da parte di Geillis e la serie coglie l’occasione per creare un confronto con Jamie (che come sappiamo, ha subito la stessa violenza da parte di Jack Randall) che stupisce e stimola ammirazione per l’efficacia e la semplicità con cui i due uomini si confrontano su questo tipo di esperienza. Si tratta di un momento intenso e ben gestito, in cui non soltanto – e questa è una caratteristica che ritroviamo in tutte le amicizie maschili di Outlander – si preoccupa di ritrarre la tenerezza tra due uomini come qualcosa di naturale e positivo, ma dipinge un momento di vulnerabilità emotiva e di condivisione del dolore che raramente (o meglio, praticamente mai) troviamo associata a due personaggi maschi eterosessuali in televisione.
D’altronde, come abbiamo già detto la forza dirompente di Outlander sta nella sua capacità di fondere le trame d’amore e d’avventura con un’esplorazione costante delle emozioni, e nella capacità di farlo smarcandosi da qualsiasi facile stereotipo e da ogni tipo di scorciatoia. Claire e Jamie, così come ogni altro personaggio della serie, sono esseri complessi, vulnerabili e contraddittori immersi in un tipo di narrazione nella quale siamo abituati a vedere eroi senza macchia e senza paura.
Anche per questo la chiusura dell’episodio con l’aggressione da parte di Bonnet, sulle note di una moderna “America the Beautiful” cantata da Ray Charles, arriva come un pugno nello stomaco per la sua violenza, per il tradimento della fiducia e per la gratuità del gesto, ma al tempo stesso è un momento rassicurante per lo spettatore sul mantenimento dello spirito della serie. Diretta da un regista che esordisce in Outlander con questo episodio, Julian Holmes, si mantiene in equilibrio sul filo dell’esagerazione drammatica ma non lo supera mai: ogni dolore appare reale, lo choc autentico, la tensione palpabile sia pure all’interno di un momento non certo sottile da un punto di vista di messa in scena, perché totalmente muto e associato a una canzone che spezza totalmente l’immersività del racconto per il suo anacronismo.
Così come il resto dell’episodio, il finale di “America the Beautiful” arriva a sancire l’inizio di una nuova avventura ed è una rassicurante conferma delle capacità di utilizzarla come canovaccio sul quale esplorare l’animo umano. Poche cose riescono a soddisfare lo spettatore come un ottimo episodio di Outlander, e questo è sicuramente un ottimo episodio, che sembra inaugurare una stagione di rinnovata energia creativa per la serie.
Voto: 8