Guardando con sguardo critico e imparziale la televisione odierna è facile notare quanto stia cambiando rapidamente. È un dato di fatto che i generi che da anni avevano trainato le grandi masse di telespettatori – su tutti il teen drama – oggi si trovino a dover reinventarsi, per stare al passo dell’enorme diffusione e diversificazione dei modi di fruizione delle serie tv. Se, appunto, show con un target di riferimento molto limitato e legati indissolubilmente alle caratteristiche della società contemporanea devono necessariamente trovare nuovi modi di esprimersi, quello che ci si chiede è se forse non sia meglio che abbandonino ogni tentativo di assomigliare alle forme assunte in passato.
Guardando allo straordinario successo di critica e di pubblico di Riverdale la risposta a questo quesito sarebbe assolutamente negativa. È chiaramente possibile – e redditizio – lavorare sui generi del passato e rimodellarli in modo da renderli appetibili sia agli esigenti teenager che a un pubblico molto più vasto, che potrebbe apprezzarne sfumature diverse. La multidimensionalità dei prodotti pare, dunque, essere l’obiettivo a cui i grandi network puntano, e nessuno lo sta facendo meglio di The CW in questo periodo. La serie creata da Roberto Aguirre-Sacasa e co-prodotta da Greg Berlanti – uno degli uomini più influenti e potenti nella tv contemporanea – lavora proprio in questo senso, adattando i personaggi di una serie a fumetti di stampo adolescenziale che ha più di settant’anni, la Archie Comics, e costruendo intorno a loro un universo surreale e acronico in cui può succedere davvero di tutto, a partire dalla piccola città in cui si svolge lo show.
Sì, perché il punto forte di Riverdale è l’ambiziosa – ma finora riuscitissima – opera di world-building che gli autori edificano sin dalla prima stagione. Intorno ai protagonisti, sui quali ci si sofferma più avanti, viene infatti costruita una città – omonima al titolo dello show – viva e narrativamente attiva, che si erge come un vero e proprio personaggio aggiunto, oltre che a rappresentare un punto di incontro di tutta una serie di caratteristiche che omaggiano produzioni del passato. Per esempio c’è moltissimo Twin Peaks: dalla componente mystery che pervade la narrazione sin dall’inizio, agli attributi più strettamente geografici che caratterizzano Riverdale – l’essere una piccola cittadina isolata rispetto alle grandi città, il contenere un ecosistema di personaggi sopra le righe le cui storie e relazioni si intrecciano, l’essere abitata dalla presenza del male, inteso come concetto tout court. Nello show le citazioni e i rimandi si sprecano e concorrono a definire un setting narrativo stimolante e figlio di una cultura popolare estremamente riconoscibile e decisamente attraente sotto tutti i punti di vista.
Non è da sottovalutare la scelta di non posizionare Riverdale in una temporalità ben definita: le atmosfere e i locali della città, infatti, sono tipicamente anni ‘50 – un chiaro esempio è il Pop’s Chock’lit Shoppe, il diner in cui i protagonisti si ritrovano abitualmente – ma la tecnologia e le tematiche affrontate dai personaggi sono quelle attuali. Una contraddizione che potrebbe sembrare straniante, ma che in realtà – oltre ad essere oggi utilizzata in moltissime altre produzioni – contribuisce alla resa della città come di un microcosmo isolato dallo spazio e dal tempo, all’interno della quale gli autori hanno la totale libertà di sperimentare e di costruire le loro complicate strutture narrative, fatte di violenza, amore, segreti e magia. Un mondo fantastico che non ha bisogno di richiedere alcuna sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore, perché si pone fin dall’inizio come un elemento estraneo e al di fuori di ogni canone della realtà.
La trama della serie parte come una narrazione crime-mystery con la scomparsa di uno degli studenti della Riverdale High, Jason Blossom, giovane rampollo di una delle famiglie più ricche della città. Il caso di cronaca sconvolge gli equilibri di Riverdale, portando al limite le tensioni sopite tra i vari gruppi sociali che la abitano, in particolare la rivalità tra gli abitanti della parte nord – costituita dal ceto medio-alto – e il Southside, il quartiere più degradato e caratterizzato da criminalità e povertà diffusa. La storia è narrata principalmente dal punto di vista dei quattro protagonisti adolescenti: Betty Cooper, la ragazza della porta accanto da sempre invaghita del suo migliore amico; Archie Andrews, il belloccio campione di football con la passione della musica; Veronica Lodge, la ricca ereditiera con il padre in prigione appena arrivata in città; Jughead Jones, ragazzo del Southside con la passione per la scrittura e il giornalismo, nonché narratore off-screen della serie. In aggiunta troviamo un ampio parco di personaggi secondari che vanno dai genitori dei ragazzi ad altri compagni di scuola, tutti con caratteristiche proprie e con un ruolo ben definito nella ragnatela di relazioni che compongono Riverdale.
Come si può notare da questa breve descrizione, i personaggi della serie sono scritti a partire da stereotipi ben definiti dalle produzioni teen che tutti ben conosciamo: è una precisa scelta degli autori, che, a partire da caratteristiche idealtipiche costruiscono dei protagonisti solo apparentemente monodimensionali che rivelano, episodio dopo episodio, un’evoluzione sottile e fatta di svolte inaspettate ma mai incoerenti. C’è anche da dire che i personaggi sono talvolta utilizzati come dei veri e propri strumenti narrativi, al fine di esplorare un tema o un altro: ad esempio la necessità di identificarsi in un gruppo sociale e la difficoltà di integrazione in un altro, o il rapporto intergenerazionale tra genitori e figli. Anche in questo enorme calderone di spunti e tematiche si rispecchia, come si diceva prima, la multidimensionalità della serie, che non si ferma mai alla superficie e, soprattutto, non si appiattisce su se stessa, risultando ben più profonda di quanto possa sembrare ad uno sguardo distratto.
Se la prima stagione, con i suoi tredici episodi, non mostra ancora le migliori qualità dello show, caratterizzandosi come un buon crime teen drama, è dalla seconda che la serie diventa davvero addictive. Gli autori cominciano a sperimentare con i generi – dalla decostruzione del classico episodio musical all’omaggio ai flm noir – e con le aspettative dello spettatore che non sa letteralmente cosa aspettarsi da un episodio all’altro; in questo giocano un ruolo importante la gestione del meccanismo dei cliffhanger e la rapidità con cui si evolvono le situazioni e le relazioni tra i personaggi. Laddove nella maggior parte dei prestige drama, infatti, i rapporti e i sentimenti sono costruiti ed espressi attraverso una verbosità esagerata e alle volte inconsistente, in Riverdale tutto scorre molto più velocemente e lo status quo viene costantemente sconvolto sin dalle sue fondamenta, senza timore di far saltare l’intero impianto narrativo.
Non esiste oggi una serie più folle e assurda di Riverdale, dove gli autori sembrano all’apparenza fuori controllo e incredibilmente liberi di creare situazioni totalmente inverosimili, sempre tuttavia rimanendo nei binari più o meno rigidi del teen drama e caratterizzandosi come la naturale evoluzione di esso. La serie The CW non vuole, infatti, raccontare la realtà degli adolescenti di oggi o far sì che essi possano identificarsi nei personaggi – come stanno facendo benissimo altri prodotti recenti tipo Sex Education e PEN15 –, bensì offrire loro un mondo totalmente sopra le righe e incontrollato attraverso il quale possono evadere dalla realtà e immaginare di poter dare la caccia a terribili serial killer o vivere altre pericolose avventure.