Finita anche questa terza stagione di The Good Place possiamo dirlo forte e con cognizione di causa: l’ultima fatica di Michael Schur è un capolavoro di scrittura televisiva. Quest’ultimo aggettivo – televisiva – non serve soltanto a delimitare l’ambito e l’ambiente a cui ci riferiamo, ma è qualificativo nel senso più puro. In parole semplici, The Good Place è l’ultima grande serie tv “autentica”, capace di sfruttare meglio di qualunque altra le potenzialità del mezzo che abita e di portarlo al livello successivo senza sminuirne la natura, bensì, appunto, esaltandola.
Adesso che finalmente si guarda alle serie tv come nuovi contenitori di arte e cultura, paragonabili senza troppi scrupoli al cinema, è facile sentire/leggere frasi come “non è un semplice show, è un film di 10 ore” oppure “ha un aspetto molto cinematic”, quasi a voler svilire e/o superare la natura intrinsecamente televisiva di questi prodotti. Insomma, pur essendo ormai superata dal punto di vista critico e produttivo l’idea che il piccolo schermo per essere credibile debba avvicinarsi al suo fratello maggiore, il recente boom del fenomeno serie tv è andato ben oltre i forum degli amatori e degli addetti ai lavori, portando ad un ampliamento dell’audience – sempre più mainstream – e al conseguente consolidamento di un “discorso pubblico” sulle serie che di fatto è molto più indietro rispetto all’evoluzione reale del mezzo. In una specie di cortocircuito algoritmico, le produzioni di un provider spesso anche molto innovativo come Netflix, ad esempio, sembrano fare dei passi indietro in termini qualitativi, nel vano tentativo di trovare la formula giusta per unire il cinema alla tv (ovvero il regno del binge watching online).
In questo scenario, The Good Place non è certo l’unica oasi nel deserto – sono per fortuna tantissime le serie tv che nobilitano il mezzo e non si vergognano della propria natura – ma è forse la più efficace di tutte. L’unico show paragonabile per presa sulla scrittura è probabilmente Jane The Virgin, con la sua gestione perfetta dei twist, ma neanche la telenovela CW è mai riuscita a mantenere un ritmo così serrato senza mai perdere in qualità, anzi alzando di volta in volta la posta in gioco. Ciò che sorprende della terza stagione di The Good Place è proprio questa capacità e voglia di rigenerarsi continuamente, senza indugiare in scenari e situazioni che, volendo, lo avrebbero permesso senza problemi. Schur e il suo team creativo, infatti, non hanno mai scelto la strada più “safe”, laddove per safe non si intende in alcun modo dozzinale o stagnante, soltanto più logica ed immediata. Tale modus operandi e narrandi, già individuabile nelle scorse annate, si è concretizzato in maniera sempre più evidente con le montagne russe di svolte narrative e cambi di scenario che hanno caratterizzato l’ultima stagione. La struttura ad episodi, dunque l’ossatura di ogni serie tv, è stata sfruttata al massimo per portare avanti il racconto, riuscendo a superare la divisione manichea tra plot orizzontale e verticale senza rinunciare ai vantaggi di entrambe le impostazioni classiche. The Good Place ha il ritmo di una comedy ad episodi autoconclusivi, compatta e brillante, ma anche un fortissimo senso della continuity e una direzione chiara di tipo “evolutivo” che investe non tanto i personaggi ma piuttosto la storia stessa.
La crescita dei protagonisti come individui, infatti, pur essendo il tema portante del racconto è forse l’aspetto più debole della serie: a funzionare è soprattutto il percorso che fanno come collettività, tanto che le singole personalità di Eleaonor, Chidi, Tahani, Jason e perfino Michael e Janet rimangono nell’ombra, non brillano mai. Non si tratta di un vero e proprio difetto, vista la natura e la singolare struttura dello show, ma sicuramente è un punto di debolezza che in alcuni frangenti emerge con più facilità.
Nel corso di questa stagione si è trattato della storia d’amore tra Eleanor e Chidi, a cui è stato affidato un ruolo preponderante nel season finale, forse non del tutto giustificato. Il fatto che non siano molti i fan della coppia è indicativo: se non ci piacciono insieme è perché probabilmente gli autori non ci hanno fatto vivere davvero l’evoluzione dei loro sentimenti, impedendoci di sentirci coinvolti. A fronte dei picchi qualitativi di episodi come “Janet(s)”o la mid season premiere, il season finale risulta quindi anticlimatico e purtroppo deludente, per quanto comunque di altissima qualità.
Insieme ad un primo gruppo di puntate belle ma ancora anonime rispetto al prosieguo (il post-“Jeremy Bearimy”), questa è l’unica pecca di una stagione davvero ottima, non soltanto dal punto di vista dell’innovazione e dell’audacia in termini di costruzione ma anche per la capacità di analizzare il mondo. Già nelle prime due annate, la serie aveva fatto un lavoro straordinario nel rendere fruibili concetti etici complessi, ma con la terza stagione c’è stato un ulteriore passo avanti: la scoperta che nessuno è stato ammesso nel Good Place negli ultimi 400 anni a causa dell’impossibilità di applicare gli stessi standard etici del passato ad un mondo globalizzato infinitamente più veloce e complesso è sia un piccolo colpo di genio che un messaggio potentissimo. Le idee che Chidi espone nelle sue lezioni non sono più soltanto dei concetti astratti, ma finalmente vediamo in che modo la nostra realtà è incorporata nell’universo narrativo di The Good Place. Ancora una volta, quella che era iniziata come una comedy con il vezzo di parlare di etica si è dimostrata un’opera straordinaria in grado di raccontare l’umanità e leggere il mondo contemporaneo come poche altre, che sia al cinema, in tv o sui nostri computer.
Il fatto che faccia anche ridere un sacco, poi, non è un ostacolo, una distrazione, o un gradito incidente di percorso, bensì parte integrante del suo concept.
Ma, d’altronde, esiste un mezzo migliore dell’ironia per esplorare la realtà?
Voto: 9 ½
Varie volte con questa serie mi fermo a pensare:
“sono geniali, veramente geniali, ma ora dove andranno a parare?”
E tutte le volte trovano un nuovo filone narrativo originalissimo dove sviluppare la trama.. fantastica!
Tre stagioni ma sono successe tante di quelle cose che avrebbero potuto essere il doppio. Il paragone con Jane The Virgin è ardito ma efficace. Ed è vero anche che lí alcune puntate [edit] hanno rallentato. Qui invece di rallentamenti nemmeno l’ombra. Recensione impeccabile, Francesca.
Il commento è stato modificato: vi ricordiamo di fare sempre attenzione a non fare spoiler su eventi importanti di altre serie! Grazie, La Redazione
Scusate, mi lo spoiler mi era scappato (
Grazie mille! Il paragone con Jane è appunto legato alla voglia di puntare sempre più in alto, senza indugiare su situazioni a cui magari siamo abituati perché abusate (per quanto sempre efficaci). Se Jane ne fa un discorso soprattutto di riappropriazione del genere, The Good Place è interessata a sperimentare con il modo di raccontare e quindi ottiene risultati “tecnici” più rilevanti.
Notevole serie, gli attori sono splendidi e non posso più farne a meno :), fa pensare, ridere e sorridere, una trama che scorre bene come poche, sceneggiatori con le p°°°°* cose al posto giusto.
Bella recensione, grazie!
*siamo nella parte buona 🙂
Grazie ❤️