
Proprio per questi motivi pregiudiziali la maggior parte delle considerazioni sull’episodio di apertura di questa stagione è mossa da un confronto diretto con il passato e da un ragionamento parziale (considerata la natura introduttiva dell’episodio) sullo stato delle cose. Il primo accorgimento critico ruota intorno alla natura formale della serie, ed è di tipo positivo: American Gods ritorna con una premiere in piena continuità stilistica con la grandiosità formale della stagione precedente, anche senza la supervisione creativa (che l’anno passato era parsa determinante o almeno caratterizzante anche nell’impostazione visiva e non solo nelle scelte narrative) di Bryan Fuller e di Micheal Green. Si temeva che l’allontanamento dallo show di Starz (distribuito in Italia da Amazon Prime Video) di questi due talenti della serialità americana avrebbe inficiato con evidenza lampante e immediata sulla caratteristica di punta dello show, ovvero la citata cura visuale, ma non è stato questo il caso.
L’episodio si rivela almeno da questo punto di vista una gioia per gli occhi, un tripudio in cui l’armonia dei vari elementi tecnici (regia, fotografia, effetti visivi e montaggio con l’impianto scenografico, i costumi, il sound design e il design di produzione) orchestra un cosmo visivo che strappa l’applauso e suscita meraviglia. È un sollievo, perché sarebbe stato uno smacco non indifferente perdere la carica fiammante che la prima stagione aveva proposto con forza: difficile trovare uno show con un controllo espressivo sull’immagine così ispirato e libero, così barocco e incauto nell’uso del continuo eccesso, dell’esuberanza e dell’assenza di misura.

L’episodio è firmato da Neil Gaiman (assieme a Jesse Alexander), ma la costruzione degli eventi manca di tensione, fascino e mistero. La presenza dell’autore è infatti garante di aderenza al testo originale ma non è funzionale allo slancio drammatico dell’episodio. Se nella prima stagione ogni puntata era una gemma qualitativa in grado di ragionare sul testo di partenza grazie alla sperimentazione (digressioni tematiche, focus narrativi, voice over acrobatici) e alla presenza di un ritmo compassato, attendista e programmatore attento ai minimi dettagli, “House on the Rock” invece manca completamente di quella visione creativa in grado di interpretare al meglio la materia prima: quella capace di studiare il testo da un punto di vista nuovo, ampliato e inedito, modificandolo e anche allontanandosene in certi casi per raggiungere gli stessi obiettivi mediante una nuova obliquità. Il suo pregio è solo la compattezza, l’ordine calcolato in contrasto con la folle impostazione visiva, la normatività prevedibile dell’andamento e delle svolte.

Al di là del singolo esempio, la visione della puntata suggerisce un calo qualitativo nascosto dalla confezione di prestigio. Non sembra esserci interesse nello scavare le psicologie dietro le azioni e le cause dietro gli effetti, e allo stesso tempo non sembra esserci nemmeno la volontà di accennare un programma narrativo o un’idea di mappa contenutistica da esplorare attraverso la distensione degli archi drammatici. Mancano il senso di avventura e la profondità concettuale, il fascino del racconto appassionato di storie e religione, la tensione verso la narrazione più grande e più ampia, ovvero gli elementi che avevano provocato curiosità e partecipazione emotiva.
“House on the Rock” è un inizio mediocre intessuto in una trama di immagini sfolgoranti, un insieme di scelte poco propositive e incisive funestato dall’assenza di creatività o dalla mancanza di applicazione precisa della stessa. American Gods così è solo smalto, pratica formale non sostenuta da niente e quindi effetto speciale in grado di sbriciolarsi facilmente. L’impressione è che sarà difficile per la serie raggiungere i livelli della prima annata. Speriamo che un po’ di fede possa capovolgere i pronostici e che questo primo episodio sia solo una falsa partenza e non un vaticinio negativo.
Voto: 6
