
Ed ecco qui, alla vigilia della battaglia definitiva che promette di superare qualsiasi cosa abbiamo visto prima, ritroviamo tutti i personaggi che ci hanno accompagnato per sette stagioni, giunti ormai alla resa dei conti definitiva. Quasi a conclusione di una premiere che aveva riportato tutti i protagonisti in un luogo solo, “A Knight of The Seven Kingdoms” funziona anche come secondo capitolo di una ideale trilogia dedicata a Winterfell, lì dove tutto iniziò e dove ora tutto (o quasi) finisce. E c’era veramente bisogno di un episodio che recuperasse la natura più intima e introspettiva del fantasy di Martin (dopo che molti avevano criticato l’eccessiva frettolosità della settima stagione), per ritrovare quell’intensità emozionale e quell’ampissimo respiro, entrambi necessari come preambolo alla battaglia decisiva.
“We’re all going to die. But at least we die together.”
Il titolo dell’episodio si riferisce all’investitura di Brienne come cavaliere e si erge a simbolo del completamento degli archi narrativi di quasi tutti i personaggi. Alla fine di tutto, di fronte alla Morte che incombe, arriva la quadratura del cerchio, la fine dei viaggi personali di ognuno dei protagonisti prima che il fato decida a quale destino debbano andare incontro. Non è un caso che l’episodio si apra con un tentato processo che non porta però a nessuna condanna o assoluzione, come a indicare che nel momento della verità ognuno verrà accettato per quello che è, tanto per i crimini commessi, quanto per gli atti d’onore di cui si è forgiato. E così, la maggior parte dei dialoghi e dei confronti nell’episodio danno un senso di chiusura, non lasciano adito a nessun sotterfugio o non detto, a nessun mistero o inganno. Ci si apre alla malinconica verità di se stessi e ad una comunanza senza filtri che per sette stagioni è stata così difficile trovare.
“Arise, Brienne of Tarth, knight of the Seven Kingdoms”

“This is what Death is. Forgetting. And being forgotten.”
Le sequenze nella hall di Winterfell sono infatti il perno e il nucleo centrale dell’episodio. Nella rappresentazione dell’attesa, esse celebrano con la loro semplicità la vita in tutte le sue sfaccettature, attraverso un cameratismo tra i personaggi coinvolti che, seguendo un registro a metà tra dramma e ironia, sembra voler omaggiare Peckinpah (lo spirito de Il mucchio selvaggio aleggia sulla scena) e i western, fino a ricordare nelle sue note più tragiche ed elegiache Tolkien e Il signore degli anelli. Può sembrare facile mettere tutti questi personaggi così diversi e farli semplicemente parlare, ma è il loro background qui che pesa come un macigno su di essi, il passato e il percorso intrapreso che li ha cambiati nel profondo, segno che, tra pregi e difetti, Game of Thrones ha portato alla luce e ha saputo tratteggiare personaggi di un’umanità incredibile, in grado di stagliarsi in maniera indelebile nell’immaginario collettivo.
Ed è proprio questa la sensazione che permea tutto l’episodio: gli autori omaggiano la propria creatura nell’ultima occasione possibile (quando i personaggi sono tutti insieme), ricordando tutti i momenti salienti che hanno scandito questo viaggio, tra auto-citazioni (“The things we do for love“, “And now our watch begins“) e celebrazione della “memoria” come unico antidoto contro la Morte. Ciò che i personaggi sono diventati, ciò che hanno passato, è ciò che li rende umani (anche a noi spettatori) ed è ciò che che li ha portati lì e li ha resi pronti a combattere contro la Morte. Non tutto è ancora risolto (ci sono altri quattro episodi per completare la saga), ma in tutto e per tutto questa puntata si pone come omaggio, ricordo, epilogo, elogio funebre dell’intera serie.
“What about the North?”

La sua estraneità diventa maggiormente evidente quando le due figure femminili vengono messe a confronto nella scena dell’arrivo di Theon: il Greyjoy si inginocchia ossequioso alla sua regina, la quale mantiene le distanze in maniera quasi autoritaria, ma quando viene interrogato sul perché del suo ritorno, è a Sansa che improvvisamente egli rivolge lo sguardo, con lei che corre ad abbracciarlo lasciando in disparte Daenerys, con la regia che visivamente rimarca la sua lontananza nei confronti di un mondo che sembra faticare ad accettarla.
“How do you know there is an afterwards?”

Voto: 9

Bellissimo! Questo episodio numero 69 lo ricorderò come il più commovente, l’unico visto con gli occhi lucidi nonostante la parentesi MEH! di Arya, personaggio asessuale per eccellenza.
Bravissimo…:)…meravigliosa recensione…hai colto l’essenza dell’episodio,malinconico e struggente…
Nulla di più, nulla di meno. Un capolavoro