Dopo una gloriosa seconda stagione, che ha confermato se non superato i già altissimi livelli dell’annata di esordio, GLOW si presenta al terzo appuntamento col pubblico anticipato da delle enormi aspettative.
Il cambio di setting da Los Angeles a Las Vegas avrebbe dovuto portare un radicale cambiamento nella serie, e se sicuramente questo si è tradotto in un tono e ad un approccio completamente differente rispetto alle prime due stagioni, tale rinnovamento non ha portato quell’aria di freschezza nel racconto che le potenzialità lasciavano invece presagire.
Il meccanismo narrativo sembra infatti essersi arenato, complice forse il moltiplicarsi di plot individuali (non sempre riuscitissimi) e spesso distaccati l’uno dall’altro, che hanno inficiato quella che era la migliore caratteristica della serie: la coralità, il senso del gruppo. Persino in un episodio come “Outward Bound”, frammento riflessivo ambientato in un canyon e che avrebbe dovuto far ritrovare uno spirito di coesione tra i vari personaggi, continua a mancare quel senso di unione che solo la bravura del cast riesce in alcuni momenti a restituire.
L’impressione è che la serie soffra della necessità di dare a tutti un plot individuale forte (persino Bash e Sam), il che a tratti sembra più un qualcosa di auto-imposto, costruito e meccanico, che narrativamente agisce in modo negativo sul ritmo e la coesione interna, forse complice anche un setting che a tratti sembra claustrofobico per quanto statico, con i personaggi relegati nei corridoi di un albergo in contrasto con le luci e il desertico paesaggio di Las Vegas, che non emerge davvero quasi mai.
Il tutto è ovviamente da rapportare ad una serie che aveva alzato l’asticella della qualità in maniera impressionante, distinguendosi proprio per la creatività e il grande ritmo dato alla narrazione. I problemi di questa stagione, infatti, non inficiano in nessun modo i momenti altissimi e la brillantezza di una scrittura che comunque non sembra conoscere cedimento, con la sempreverde abilità di sapere alternare comicità a momenti drammatici, come dimostra un incipit che, in questo senso, funziona quasi come uno statement.
La serie inizia infatti con le protagoniste che hanno ormai creato un loro “safe place” dove sentirsi sicure e soprattutto se stesse (seppure nei loro personaggi). Ecco, però, che il mondo esterno manda un segnale a risvegliare quel senso di pericolo, difficoltà e dramma, che in quella “comfort zone” (rappresentata dal set così claustrofobico, per quanto luccicante, dell’albergo) sembravano svaniti finalmente per sempre. L’esplosione dello shuttle nel momento in cui Ruth, nei panni del nemico russo Zoya, si prende gioco degli astronauti americani, è talmente potente da definire l’intera stagione, nel suo aprire gli occhi ai protagonisti sul fatto che quelle maschere indossate sono solo un’illusione di sicurezza, dietro la quale si cela la necessità di continuare a lottare per riaffermare la propria vera identità.
E, facendo questo, la serie tocca in maniera mai banale tematiche molto sentite nel nostro presente, che vanno dalla razza, alla sessualità, alla posizione sociale, al fisico e, in generale, agli stereotipi a cui questi personaggi femminili sono costantemente costretti. Il tutto trova un esempio lampante in “Freaky Tuesday”, che fa da spartiacque e rappresenta senza dubbio il migliore episodio della stagione. In una carambola di gag che finalmente riporta il wrestling al centro dell’attenzione, le protagoniste rompono quel meccanismo che le fa sentire protette ma anche annoiate, e prendono l’iniziativa di rompere le regole e scambiarsi i personaggi da interpretare.
Se questo rappresenta un’improvvisa e rivoluzionaria aria di freschezza, porta presto alla luce problematiche prima sopite legate ai rapporti tra i personaggi (in particolare col produttore Bash nella sua deriva autoritaria scatenata dalla paura di essere scavalcato), ma soprattutto alla presa di coscienza di identità personali che hanno bisogno di reinventarsi e trovare la propria voce al di là della maschera a cui si è deciso di aderire.
Emerge da questo momento la necessità per le protagoniste di lottare per la propria affermazione, contro ogni restrizione di ruolo sociale, persino contro il proprio fisico (come dimostrano i disordini alimentari di Debbie, o il problema alla schiena di Carmen). È lì che GLOW ritrova quella carica dirompente che aveva fatto brillare le precedenti stagioni. E da qui la serie dovrà proseguire nella futura quarta e ultima stagione, tentando di non dimenticare la coralità dello show cementificata in un wrestling colpevolmente troppo assente dalle scene di questi dieci episodi.
L’acume della scrittura e la bravura del cast (con una Debbie Giplin sempre più meritevole di ogni premio), così come le aggiunte che vedono in Geena Davis e Kevin Cahoon delle guest in grado di impreziosire ogni scena, hanno salvato una stagione di GLOW molto altalenante, ma che di nuovo si è dimostrata maestra nel portare gli anni Ottanta nel presente di oggi, con tematiche e problematiche che non hanno mai smesso di evolversi, ma che ancora oggi hanno il bisogno di trovare voce per non implodere nelle maschere di personggi prestabiliti.
Voto: 7