Godfather of Harlem – 1×01 By Whatever Means Necessary


Godfather of Harlem - 1x01 By Whatever Means NecessaryTre caratteristiche sono immediatamente chiare dalla visione del pilot di Godfather of Harlem, nuovo drama prodotto da Epix e scritto da Chris Brancato e Paul Eckstein: l’interesse preminente per la scrittura; l’assenza di connotazioni formali nella regia; la forte carica fisica e corporea delle interpretazioni.

Se sulla scrittura e sulla gestione delle prove attoriali (quelle di Forrest Whitaker, Vincent D’Onofrio, Giancarlo Esposito, Nigel Thatch e Ilfanesh Hadera) sarà necessario spendere un approfondimento più avanti, sull’assenza di un punto di vista formale si può subito specificare lo stato di stupore provocato da un così netto ed evidente disinteresse per il controllo formale. La negatività e l’importanza di questa controparte motivano un’analisi specifica, che riscontra proprio un abbandono, più che un tentativo mal riuscito.

La mancanza di uno sguardo registico sulle vicende raccontate non è necessariamente un’anomalia per serie che non si costringono a ragionare sulla ricostruzione storica di certi ambienti o ancora sulla credibilità della rappresentazione di eventi verosimili e non documentati. Lo è invece per questa serie incentrata su un personaggio realmente esistito, Bumpy Johnson, boss del crimine organizzato vissuto negli anni ’60, e sulle sue azioni dopo l’uscita di prigione e durante la lotta con la famiglia mafiosa dei Genovese. Lo è per un racconto per immagini che ha tra i suoi personaggi principali, per esempio, Malcolm X e tutta la carica iconologica (quindi anche visiva) che lo riguarda. Lo è quindi per un prodotto audiovisivo imperniato sulla dialettica tra storia reale, storia verosimile e storia completamente finzionale, e sulla funzione della rappresentazione in tutte e tre i casi.

Godfather of Harlem - 1x01 By Whatever Means Necessary“By Whatever Means Necessary” non può vantare nessuna delle caratteristiche necessarie per le narrazioni che costruiscono mondi, perché rinuncia in toto e fin da subito alla regia. Negativi sono i momenti che riguardano lo sviluppo ambientale e quello della partecipazione emotiva. Concentrandosi sul primo, non può essere che fallimentare un racconto su un mondo molto specifico – Harlem e la sua confusione sociopolitica negli anni ’60 – che rifiuta di ragionare sulla natura del suo stesso punto di vista e su che direzione far assumere alla messa in scena per costruire dal nulla un ambiente: la serie non è in grado né di utilizzare lo spazio e i corpi al fine di comunicare senza parole le opposizioni, gli schieramenti e le unioni dei personaggi – quindi il loro mondo inter-personale – né di sintetizzare per immagini grande e piccolo, sociologico e psicologico  – quindi il mondo come continua dialettica tra intimo e universale.

Non basta la fotografia naturalista poi per tentare di conferire realismo, senza regia non c’è impressione di realtà, né immersività e credibilità, quello stato di base utile alla narrazione per poi muoversi effettivamente da un fondamento di sospensione dell’incredulità. Il mondo in cui si muovono i personaggi di Godfather of Harlem è già dall’inizio quindi poco vivo, poco esistente, e invece molto artificioso, molto distaccato.

Anche la partecipazione emotiva è assente: la mancanza di sguardo causa una rappresentazione poco empatica, perché la regia non è mai in grado di cogliere la congiunzione, l’intersezione o anche l’allineamento dello sguardo del personaggio con quello dello spettatore. Non permette quindi di instaurare un legame allo spettatore, che non incontra mai la direzione del punto di vista del personaggio e non è mai coinvolto nelle sue decisioni, nelle sue emozioni. La vicenda storica è allora lontana e impercettibile non solo per l’artificiosità del contesto ma anche per la distanza tra la narrazione (e le sue sfumature) e la visione, e perché diventa assente, all’interno di una cornice sociopolitica che può interessare a vari livelli, l’universalità del sentimento generato dall’incontro degli sguardi e la sua capacità di trascendere le differenze temporali e spaziali.

Godfather of Harlem - 1x01 By Whatever Means NecessaryIn ultimo sembra giusto menzionare, solo brevemente però, un altro dei risultati dell’assenza della regia: la mancanza di riflessione iconologica sugli individui politici, come Malcolm X. Messa di fronte a una vera e propria icona sociale, politica, religiosa, la regia non si interroga mai (pur avendone occasione) su come comunicare la percezione popolare nei confronti di questa persona e allo stesso tempo l’ascendente di questa persona sul suo pubblico. Ma la complessità dell’operazione forse legittima l’attesa dei prossimi episodi – pur considerando le deduzioni provocate dall’assenza in senso lato dell’ispirazione visiva.

C’è quindi solo un continuo stato di inerzia, rintracciabile dalla prima scena – l’introduzione del personaggio principale – a quelle che seguono (non sorprende che la regia sia firmata da un bravo sceneggiatore, John Ridley, in veste di regista interessato solo a inquadrare le ragioni del dialogo), con la sola eccezione della sigla, che con semplicità e idee derivative almeno tenta di dire qualcosa attraverso le immagini – con la commistione di presente e passato, materiali d’archivio e girato contemporaneo. Sarebbe qualitativamente insufficiente il pilot di Godfather of Harlem allora se non fosse per il lavoro tentato nel moto contrario dalle interpretazioni e dalla scrittura, elementi che si muovono e cercano di vivificare in modo diverso il mondo schermato dalla pigrizia della regia.

Godfather of Harlem - 1x01 By Whatever Means NecessaryNel primo caso tutti gli attori cercano di levarsi di dosso il peso della distanza storica – un po’ come anche fa la colonna sonora, che alterna musiche contestuali a rap moderno – lavorando sull’economia espressiva e il linguaggio del corpo, quindi cercando di vivificare la carne della finzionalità e allo stesso tempo di incarnare la veridicità documentata.  Tutti gli attori, in modo diverso l’uno dall’altro, e con soluzioni appassionanti e creative, impongono la loro presenza fisica per attualizzare, concretare a livello anche materico ciò che viene rappresentato: Whitacker usa l’imponenza ambulante del suo corpo per mostrare quanto in realtà sia emotivamente fragile la sua psicologia, caratterizzando il dramma del suo personaggio (un boss che è stato assente dal suo regno e ora assiste ai cambiamenti) come un circuito di insicurezze impossibili da comunicare.

Hadera, nel ruolo della moglie di Johnson, è costretta, per quanto si può per ora evincere da un minutaggio limitato e da una scrittura poco interessata al controcampo femminile, ma a livello interpretativo non perde nessun confronto con Whitaker. Esposito riesce anche solo con pochi tratti a comunicare la statura politica del suo personaggio (il sindaco Powell) prima diventando caricatura e poi controbilanciando gli atteggiamenti calcati con espressioni ciniche e contratte. Thatch risponde alle aspettative relative al personaggio di Malcolm X animandone la fierezza interiore mediante la comunicazione del rigore – la postura è sempre statuaria – e l’espressione della compassione – mossa dalla gravità del contesto di riferimento. D’Onofrio, già celeberrimo kingpin, modula molto meno il corpo e concentra la rabbia razzista sul volto, guadagnando primi piani confessionali. Gli attori quindi smuovono la scena, con la loro diversità terremotano la rigidità della vetrina, che viene rotta dalla forza interpretativa.

Godfather of Harlem - 1x01 By Whatever Means NecessaryLa loro forza è comunque fondata sul testo, sulle sue estensioni e sulla sua elasticità. Non si tratta solo dello slang utilizzato per formulare anche a livello uditivo un tappeto armonico credibile, ma proprio della natura elastica di alcuni confronti dialogati, del movimento fluido della verità tra due poli differenti e della sensazione di essere di fronte a una scrittura in grado di respirare e di muoversi all’interno di un sistema e quindi di coinvolgere, anche emotivamente. C’è poi dietro alle scelte di sceneggiatura (l’episodio è scritto da Chris Brancato)  la forte consapevolezza dell’estrema famigliarità del pubblico con i codici del gangsterismo e del racconto mafioso: è buona la scelta di una prospettiva dedicata più alle conseguenze concrete dell’anarchia urbana che alle dinamiche – comunque presenti – delle lotte tra le famiglie, perché corrisponde a un punto di vista meno frequentato.

Le interpretazioni e la scrittura movimentano quindi lo stato di immobilità prodotto dall’assenza di regia. Questo emerge dal pilot di Godfather of Harlem, un prodotto che compromette le sue grandi potenzialità con errori grossolani. È quasi impossibile costruire una storia che ha ambizioni macroscopiche – raccontare un mondo, per quanto circoscritto – rinunciando completamente alla controparte visiva. Il pilot è quindi azzoppato e riesce a guadagnare una sufficienza solo grazie al lavoro degli altri contributi. Sarà un peccato se i tentativi fatti in sede di scrittura e il buon lavoro degli attori rimarranno impercettibili per via dell’indifferenza generata dalla regia.

Voto 6 1/2

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Informazioni su Leonardo Strano

Convinto che credere che le serie tv siano i nuovi romanzi feuilleton sia una scusa abbastanza valida per guardarne a destra e a manca, pochi momenti fa della sua vita ha deciso di provare a scriverci sopra. Nelle pause legge, guarda film; poi forse, a volte, se ha voglia, studia anche.

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