Living with Yourself – Stagione 1


Living with Yourself - Stagione 1Disponibile da una decina di giorni su Netflix, Living With Yourself segna l’esordio televisivo di Paul Rudd  in qualità di attore protagonista – dopo una lunga serie di accrediti ed ospitate negli ultimi tre decenni – e l’esordio alla scrittura di Timothy Greenberg, ideatore dello show.

Nel magmatico brodo primordiale da cui emergono i prodotti televisivi degli ultimi anni è sempre più difficile trovare creature in grado di mettere d’accordo critica e pubblico in maniera unanime. Un’eccezione, nella mediocrità, potrebbe essere quella fornita da Living With Yourself, che, fin da subito, si configura come il classico prodotto del colosso dello streaming, con un’anima improntata ad un intrattenimento leggero e pochissima attenzione alla complessità.
L’intero plot si srotola attorno alla duplice figura di Paul Rudd, molto abile nell’incarnare le due diverse anime di Miles Elliott e ad affrontare una serie di temi sull’identità, sull’inerzia e sull’autosabotaggio, con il messaggio che viene spesso urlato allo spettatore. In ogni caso è meglio procedere con ordine.

Living with Yourself - Stagione 1Seppur carina, l’idea di partenza non brilla per originalità e fin da subito si intuiscono i sottotesti tipici dei racconti sul doppio, con echi che partono da Dostoevskij e Stevenson e arrivano fino a Multiplicity con protagonista Michael Keaton. La scrittura di Greenberg cerca quindi di lavorare sulla leggerezza all’interno di un contesto con una forte connotazione drammatica, un tentativo parzialmente riuscito soprattutto grazie alla presenza fisica di Paul Rudd. L’attore originario del New Jersey è infatti molto bravo nel restituire allo spettatore uno spettro di combinazioni tra calore, charme, carisma e comicità, ai cui estremi opposti si posizionano le due versioni di Miles Elliott.
Come nelle migliori opere sci-fi, la clonazione vorrebbe essere solo un punto di partenza per affrontare quelle che sono domande e risposte a carattere universale, con una particolare attenzione al lento e progressivo deterioramento a cui, più o meno coscientemente, l’essere umano condanna la propria esistenza. Nel diverso ed entusiasta approccio alla vita del Miles clone, il Miles originale riesce ad intuire le dolorose ferite che i membri di una coppia si infliggono l’un l’altro e che ciascun individuo infligge a se stesso.

In parallelo rispetto allo svolgimento della trama procede quella che è la questione più feconda dell’intero show: da che cosa è composta l’identità? E ancora: siamo solo la nostra memoria? Living With Yourself, a cui dobbiamo riconoscere il merito di aver sollevato la domanda, non è in grado o non trova il coraggio di dare una risposta univoca. In un primo momento, con l’excursus di “Pina Colada” – episodio molto utile per ampliare l’arco dedicato a Kate (interpretata dall’ottima Aisling Bea) – lo show sembra suggerire la coraggiosa idea che il tutto, l’individuo nella sua completezza, sia più della somma delle sue parti e che non sia sufficiente installare la memoria su un corpo nuovo di zecca per ottenere un individuo identico alla matrice; in breve che l’identità umana sia frutto di complicate interazioni tra mente,  emozioni e corpo sviluppatesi all’interno di un piano cartesiano rappresentato dal tempo, e che la memoria sia poco di un’ombra. A sconfiggere quest’impressione ci pensa però il pasticciatissimo episodio conclusivo, in cui lo scontro tra i due Miles viene incastonato nell’epica della ricomposizione di una frattura e la scelta finale di Kate sembra sancire lo stesso livello tra le due versioni del marito, aprendo alla possibilità di una seconda stagione e a tutta una serie di inquietanti sviluppi.

Living with Yourself - Stagione 1Volendo considerare questa confusione tematica alla stregua di un “Vorrei ma non posso” giustificabile dal target per cui sono pensati i prodotti Netflix ad ampia fruizione, non è altrettanto comprensibile il pasticcio tecnico della messa in scena. Se l’intenzione di utilizzare i due Miles per fornire punti di vista differenti sugli stessi avvenimenti sembrava sulla carta feconda, si è rivelata goffa e malriuscita nella messa in pratica, dando adito a sequenze decisamente omissibili per la loro ripetitività. L’intreccio stesso presenta punti dolenti, rendendo evidente la difficoltà della scrittura nel gestire le pause e le accelerazioni. Due esempi su tutti la lunga, demenziale ed imbarazzante sequenza nella stanza del macchinario tiralatte o il telefonato e stucchevole colpo di scena finale. L’impressione generale guardando le otto puntate dirette da Jonathan Dayton e Valerie Faris è quella di una forte approssimazione, che nemmeno l’anima fortemente improntata al binge watching riesce a camuffare.

Volendo concedere a Living With Yourself uno sguardo meno critico si può intravvedere il tentativo di Greenberg di dare nuova vita ad un’idea poco originale integrando e reinterpretando tre diversi generi televisivi: il punto di partenza è la classica situazione da sit-com o commedia degli equivoci, in cui due persone devono contendersi la stessa vita, mentre lo svolgimento è quello di una  rom-com con uno sfondo ed escursioni sci-fi. Il risultato finale è però mediocre: Living With Yourself non è in grado di aggiungere granché di interessante al panorama televisivo attuale, se non duecento minuti di girato con protagonista Paul Rudd, che, a prescindere dal gusto estetico personale, hanno la loro ragione di esistere.

Voto: 5+

 

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