
Se The Wire manteneva l’attenzione su Baltimora e in ogni stagione affrontava un macro-tema diverso, The Deuce si muove nel tempo per parlare dei problemi che hanno afflitto midtown Manhattan e la città di New York in generale. Come sempre per i lavori di Simon, New York è diventata un caso studio accuratissimo nella sua rappresentazione e, allo stesso tempo, abbastanza generale per denunciare una serie di falle che riguardano la società statunitense nel complesso: e così si parla di segregazione e discriminazione, di disuguaglianza e sviluppo urbano, di maschilismo e violenza sulle donne e tanto, tanto altro. Il centro urbano è la prova definitiva su cui misurare i progressi e i fallimenti del sistema che l’ha prodotto, il luogo dove i cittadini si ritrovano a vivere ma soprattutto convivere – ed è proprio nella qualità della convivenza nella grande città che Simon individua cosa non ha funzionato e chi ne ha pagato le conseguenze.
I salti temporali tra una stagione e l’altra funzionano particolarmente bene nel mostrare quali vittime si nascondono dietro quelli che vengono venduti come i grandi successi del sistema capitalistico: la zona del The Deuce viene finalmente “ripulita” da prostitute, spaccio e criminalità, ma il problema è stato semplicemente spazzato sotto il tappeto. Come sottolineato dalla fondamentale linea narrativa del detective Alston e Gene Goldman, il turismo e i grandi investitori hanno vinto, ma quello che ne risulta è semplicemente più segregazione, trasferendo il sistema di spaccio e prostituzione in altre zone della città. Con la chiusura dei bagni pubblici e dei centri massaggi come risposta all’emergenza AIDS, Gene festeggia l’arrivo di “una nuova New York”, a cui Paul risponde “Yeah? Who lives in that one?”.

L’epidemia si abbatte sull’intero universo riprodotto dalla serie, scurendo l’anima della stagione e trasmettendo un senso di amarezza che uccide l’entusiasmo di cui erano pregni gli anni Settanta delle prime stagioni. È un evento che gli autori usano per raccontare un’epoca e come strumento narrativo per le storie piccole di cui si parlava, ma non solo; è anche un modo per scoprire i modi in cui una crisi di massa come questa viene affrontata dalla popolazione, a partire dalle politiche pubbliche e gli interessi che le sostengono per arrivare al panico irrazionale tra i cittadini (la piccola storyline di Bobby che sceglie di farsi testare lo racconta) e all’attivismo nato per ribellarsi all’assenza di soluzioni concrete per affrontare la questione. Ancora una volta, gli autori riescono a trattare un tema così complesso nella maniera più lucida e umanista possibile, mettendo in scena un piccolo saggio su una delle crisi più importanti in tempi recenti e legandola allo sviluppo dei personaggi principali. Ed è proprio mantenendo l’attenzione sugli archi dei personaggi che le denunce di David Simon si fanno così vivide e comprensibili.

Ed è esattamente lo stesso quello che succede con Candy, in questa annata in lotta con la definizione della sua figura come artista e con la ricezione ancora limitata e chiusa mentalmente della pornografia all’epoca: la ricerca di indipendenza e autodeterminazione riemerge regolarmente nella relazione con Hank, ma soprattutto nel travagliato sviluppo del suo secondo film. Il rifiuto di scendere a compromessi con i pregiudizi dell’industria cinematografica (Harvey le consiglia di togliere le scene porno per farlo diventare un film “vero”) la porta a non voler concludere l’opera, ma è sul finale che gli autori raccontano la fama che avrebbe ricevuto in futuro. Candy esce dai giochi con un grande successo, la storia forse più incredibile e travagliata mostrata in queste tre stagioni. Vederla a Times Square nella parrucca e nel completo da prostituta che indossava è un monito potentissimo della strada percorsa e di quali ostacoli la donna ha dovuto saltare per percorrerla.
È invece nel personaggio di Lori che Simon e Pelecanos concentrano il loro pessimismo più scuro. Inserita al centro di un’industria pornografica che si stava rapidamente evolvendo per sviluppare le sue star vere e proprie, la ragazza si ritrova vittima dell’oggettificazione crescente di Hollywood, che unita alla dipendenza e alla paranoia della cocaina la porta alla rovina. Come sottolineato dal bellissimo dialogo a casa di Candy, Lori vede la sua identità pubblica assottigliarsi nel venir ridotta ad un oggetto di consumo e non ha nient’altro che la possa definire. Il cerchio si chiude quando, al contrario di Candy, Lori si ritrova al punto di partenza dopo tutti gli sforzi dei 15 anni precedenti; il penultimo episodio racconta la sua disfatta e si chiude con il finale più crudo mostrato nella serie, in cui il suicidio della ragazza nel silenzio più assoluto denuncia il vuoto creato dal commercio del sesso in America.
“You know, when I was a kid in the country, when someone I knew had passed away, I asked my mother where they’d gone to.”
“What’d she say?”
“They walked into the arms of time.”

Voto stagione: 9+
Voto serie: 9

Bravissimo…!…splendida recensione…Una stagione finale commmovente e stupenda…
Spiazzante! Se al suo debutto ebbi l’impressione di un’originale rappresentazione del classico “sogno americano” dove con la tenacia e l’intraprendenza si può ottenere tutto, questo capitolo finale ha ribaltato tutto. Coincidenza ha voluto che insieme a The Deuce abbia visto anche quell’altro gioiello che è Pose 2, un mix davvero devastante.
Capolavoro. Amaro. Inquietante. Immersivo. Ipnotico. La terza stagione è la migliore.
Grande conclusione (ultimi due episodi).
Chissà se il futuro delle serie televisive sarà intenso come questa serie.