Al termine di un progetto a lungo anticipato, ecco giungere Apple+ nella grande arena delle streaming wars, pronta a dar battaglia ad avversari come Netflix e Amazon Prime. Il primo novembre fa coincidere la nascita della piattaforma streaming con il suo battesimo, grazie alla prima serie da gettare in pasto alle orde di appassionati, che si beano di questi Grandi Giochi.
See è un progetto ambizioso, dietro cui i grandi nomi non mancano: dietro la macchina da presa si trova scrittura pregnante di Steven Knight, penna di Peaky Blinders, e il veterano di video Francis Lawrence, per aggiungere il suo tocco, frutto di una lunga esperienza in fatto di video musicali. Davanti alla macchina, capeggiano la carismatica figura di Jason Momoa (Frontier, Game of Thrones) e la grande interprete Alfre Woodard (Recentemente apparsa in A Series of Unfortunate Events e Luke Cage). È chiaro, dunque, quanto la Apple punti sul successo di questa serie, per conquistare il proprio posto nel mezzo di una competizione sempre più serrata.
See è una serie particolare, non solo per l’energia spesa nella sua realizzazione, ma soprattutto per la storia che propone, già anticipata dall’attenzione ai titoli di testa: tamburi da guerra accompagnano accenni di forme umane e non, intrecciati dal ritmo delle percussioni. La creatività di queste immagini introduce egregiamente l’aspetto peculiare di questo nuovo show.
La serie è ambientata in una Terra post-apocalittica, dove a causa di un’epidemia gli abitanti della terra hanno perso la vista e sono stati condannati ad un lento declino, sino a regredire in società primitive che si muovono fra le spoglie di una modernità oramai antica e decaduta. Nel futuro qui preconizzato, l’umanità non può vedere il mondo che i loro antenati hanno perduto. Tutto cambia quando la tribù degli Arkenni, una delle popolazioni nomadi, dà rifugio a una donna che partorisce due bambini dotati della Vista. I gemelli sono figli di Jerlamarel, figura messianica al centro della narrazione, primo uomo in grado di vedere e presenza-assenza ricorrente per la quasi totalità della prima stagione, in una riuscita aura di sacralità e viaggio iniziatico.
Questa dimensione è uno dei maggiori punti di forza di See: il ritratto di un racconto che assume le sembianze di una grande metafora, attraverso un’interessante interpretazione del concetto di “Vista”. L’atto unico di Vedere riecheggia nella storia in più di un modo, dando al percorso di Haniwa e Kofun uno spessore originale, nella sua semplicità. In questo grande Viaggio dell’Eroe, che dà quasi l’impressione di abbracciare un mondo intero, il drappello di reietti si incontra e scontra dapprima con il volere di della Regina Kain, una delle ultime vestigia di autorità rimaste. L’inizio ricalca una classica fabula non proprio sui generis, ma ecco che la stessa trama si infittisce, si carica di significato grazie alla dimensione rituale del percorso dei protagonisti, costellato di prove strettamente legate ai sensi. Esempi sono la Strada della Lavanda, il grande Muro di Morte su cui si legge l’avvertimento di Jerlamarel e i due ponti, all’inizio e alla fine della stagione: il primo pericolante e in bilico, costruito con funi, e il secondo ampio e forte, in cemento, che termina con delle grandi luci proiettate su coloro che hanno vissuto nell’ombra tutta la vita.
Vedere è benedizione e maledizione allo stesso istante. La dicotomia fra i non-vedenti e gli unici vedenti del mondo post-apocalittico di Knight si colora di toni molto attuali, che sfiorano questioni importanti (seppur mai affrontandole di petto).
Come si vive con un dono simile?
L’involuzione dell’umanità lascia il posto alla superstizione; risulta ben resa l’idea di un’intera società al buio e tutto ciò che questo comporta, insieme all’adattamento nei secoli a questa condizione. La luce del sole è creduta come una potenza quasi divina e la Vista diviene uno spauracchio, perché i pochi a possederla possono davvero comprendere ciò che l’umanità si ostina a non affrontare: una tematica ben sviscerata durante il bel monologo di Hera Hilmarsdóttir, nei panni della principessa Maghra. Un merito della scrittura è mostrare come una combinazione biologica fortuita non basti a rendere un essere umano migliore di un altro; da una parte ci sono i gemelli, che, guidati dalla cultura tramite i libri lasciati da Jerlamarel, riescono ad orientarsi in un mondo a loro ostile, nonostante le difficoltà, dall’altra vi è Boots (Franz Alhusaine Drameh, il Firestorm di Legend of Tomorrow). Chiamato “Il Terzo Figlio”, egli è nutrito dall’odio della madre e di coloro che lo circondano, e volge la Vista ad una ricerca malsana e costante di attenzioni, di fatto perdendo la possibilità di un viaggio che gli appartenga, riducendosi a pedina dei giochi di potere della Casata Kain. L’impianto simbolico della storia è forte anche della già citata figura di Jerlamarel, sempre presente nei gesti, nelle parole, negli eventi che vengono messi in moto dalle tracce che lascia il suo passaggio. Nonostante le premesse molto originali, l’intera trama cade come un castello di carte nell’ultimo episodio, in una risoluzione molto blanda e anticlimatica, abbandonando di fatto il sottotesto mistico e quasi religioso finora suggerito, per tramutarsi in un film d’azione divertente, ma che poco ha da spartire con quanto finora mostrato. Un’afflizione appartenuta anche ad altre serie, come Carnival Row.
See è un prodotto in cui il viaggio è di gran lunga più soddisfacente della meta. Sin dal principio, si presenta un worldbuilding colmo di elementi davvero ben congeniati, anche nelle piccolezze: un metodo di scrittura, una religione delle macchine e della luce, delle armature che coprono il volto interamente senza bisogno di visiere. L’ambientazione coinvolge lo spettatore in un mondo che tenta di sopravvivere monco di un senso e della Verità, secondo la filosofia finora mostrata della serie, un mondo che si amalgama molto bene con il viaggio dei Gemelli, Paris e Baba Voss. Attorno ad Haniwa e Kofun si dipanano paralleli due messaggi, atti a influenzare la gente: le parole di Jerlamaren e le parole della Regina Kain. Assistono ad un’esecuzione di donne innocenti e ad una sorta di Beltane pagana presso la medesima pira, in un’alternanza fra Eros e Thanatos di grande impatto, ma purtroppo senza riscontro nell’effettiva economia del racconto. La dicotomia serve come momento per impreziosire una storia che, oltre alle lodevoli produzione e premesse, rimane su binari estremamente convenzionali: un’opportunità artistica sprecata in nome dell’esigenze di un bacino di pubblico più ampio possibile, di cui uno showrunner deve tener conto, purtroppo o per fortuna.
Le prove attoriali sono davvero lodevoli, sebbene non prive di scivoloni di volta in volta. Il ritratto di un mondo di ciechi è davvero convincente e ogni interprete contribuisce all’ambientazione, grazie anche all’allenamento fornito da mascherine apposite di cui sono stati muniti prima di andare in scena. La cecità degli attanti è sfruttata per costruire momenti di tensione palpabile, in una guisa originale; esempi di questo sono la comparsa degli Shadow Warrior o lo scivolare silenzioso della zattera in “The River”, nel mezzo di un drappello di soldati. Anche le scene d’azione sfruttano al meglio questa qualità: un esempio è la tenzone contro gli schiavisti in “Fresh Blood”, che mostra un Momoa calato magnificamente nella sua parte.
Nonostante il fu Khal Drogo sia indubbiamente l’uomo immagine della serie, è chiaro che i veri protagonisti siano Haniwa e Kofun. Le figure centrali di See sono ben riuscite, complementari nel loro sviluppo: più impulsiva e coraggiosa Haniwa, più prudente e dimesso Kofun. Entrambi affrontano il loro viaggio non come spettatori passivi, ma prendendo attivamente parte alle decisioni e ai combattimenti, e non lesinando l’interazione con il mondo circostante. I gemelli, pian piano, scelgono la loro via e prendono le loro decisioni, combattuti fra l’esempio di due padri così diversi fra loro. Dall’altra parte, benché non si discosti molti dai ruoli interpretati da Momoa, l’imponente Baba Voss riesce a far breccia verso lo spettatore, e anche il classico guerriero dal passato oscuro ha un nome e un volto riconoscibili all’interno della vicenda. Una prova è la scena della scalata durante la fuga dal sottosuolo nell’episodio “The Lavender Road”, davvero coinvolgente, per l’affezione verso i personaggi coinvolti.
Paris è un personaggio ambiguo, il più lungimirante del drappello di reietti, ma il suo ruolo di mentore svanisce presto, durante la seconda metà della stagione, ed è un peccato, perché la sua influenza su Haniwa e Kofun e l’ottima interpretazione della Woodard avrebbero meritato più attenzione. La presenza di Paris viene relegata a pochi momenti che la fanno quasi assurgere a ruolo di deus ex machina, grazie ai fortuiti sogni premonitori, come nella cattura di Haniwa.
La famiglia reale e le sue dinamiche risultano le figure più interessanti nella pletora di See. Il triangolo (non amoroso) fra la Regina Kain, il cacciatore di streghe Tamacti Jun e la principessa Maghra ci consegna tre personaggi profondi e sfaccettati; la loro posizione di potere si rispecchia nelle dinamiche che li legano e respingono vicendevolmente, e si riflette nel mondo attorno, culminando nella tragica distruzione di Kanzua. L’instabilità feroce della Regina è il contraltare perfetto alla lucidità della sorella minore, che non è solo madre, ma anche erede al trono. Mathra riassumerà il suo titolo di principessa e i sospetti da lei nutriti verso Jerlamarel, l’inatteso messia della vista, le daranno infine ragione. L’ultimo discorso viene pronunciato insieme, per quanto la Regina appaia contrariata: c’è alchimia fra le due sorelle, che insieme sono più forti, tanto da non aver più bisogno di Tamacti Jun. Quest’ultimo, lungi dall’essere un semplice mastino della famiglia reale, è un personaggio che si lega a doppio filo con la presentazione del mondo, essendo veicolo di un potere antico, in un mondo ritornato primitivo. Il witchunter è simbolo del potere regale che divide principessa e regina, il tutto mantenendo la personalità di un guerriero fedele solo alla sua gente, a ragione e a torto. La sua uccisione è un’importante catarsi per le due Kain, che riacquistano finalmente contatto con la realtà della loro gente e del loro rango, non più mediato dal cacciatore di streghe.
L’arco della famiglia reale presenta una risoluzione ben più interessante di quella a cui giungono i gemelli e gli ultimi Arkenni. Non è certo dovuto che Jerlamarel fosse il messia senza macchia in cui Paris aveva creduto, ma la narrazione aveva puntato così tanto su quel nuovo mondo che la risoluzione in un duello contro Baba Voss e varie incoerenze nel suo personaggio sfatano nel modo peggiore l’aura che See aveva sapientemente costruito attorno al padre dei gemelli, in maniera svelta e approssimativa. Se lo spettatore si sente tradito, forse non sarà per empatia verso i gemelli, ma perché tutti i simboli, i bei dialoghi e la forza narrativa dello show esplodono come una bolla di sapone, minando la credibilità della sua storia. C’è da sperare che con la ricerca di Haniwa e la cecità di Jerlamarel, la serie guadagni nuova linfa per le sue trame, già in vista di una possibile seconda stagione. In definitiva, Apple+ ha fatto ciò che poteva, ma forse si poteva fare un po’ di più.
Voto: 7