The Morning Show – Stagione 1 6


The Morning Show - Stagione 1Ci sono molti motivi per dire che The Morning Show rappresenta la serie ideale con cui chiudere il 2019 e forse, addirittura il decennio: il suo ruolo di apripista della lungamente anticipata “guerra dello streaming” come testa d’ariete del lancio di Apple TV+, il suo posizionamento come prima serie che utilizza il #MeToo come fulcro del proprio plot, ma forse il motivo più importante è la sua consapevolezza dell’importanza di trattare questo argomento con onestà intellettuale, quindi affidando il look & feel a una regista geniale e sottovalutata come Mimi Leder e la scrittura a una writers’ room rappresentativa di più punti di vista sul mondo (capitanata da Jay Carson e Kerry Ehrin).

The Morning Show, nella sua corrispondenza tra soggetto scelto e stile produttivo, predica bene e agisce altrettanto bene, un caso che in televisione è tutt’altro che frequente ma, anzi, denota una scaltrezza non comune nel capire la propria audience. Come le altre serie della nuova piattaforma streaming di Apple, ha uno spettatore di riferimento molto preciso al quale si rivolge con toni e metodi plasmati sui desideri, sapendo che quella coerenza che sta mettendo in campo per quel tipo di spettatore (o spettatrice) non è soltanto gradita ma è un sine qua non per la trattazione di un argomento spinoso e delicato come il #MeToo.
Coerenza non vuol dire però condiscendenza e la serie non indulge in quel tipo di trucchetti meta e strizzate d’occhio da feminist fantasy che ad esempio, caratterizzavano l’ultima stagione di House of Cards: The Morning Show prende sul serio chi guarda e ciò di cui parla e, pur mettendo in campo una satira metatestuale, sceglie una strada di grande complessità. Gran parte della riuscita dello show nasce proprio da questo prendersi sul serio nell’esplorazione dei meccanismi tossici di un mondo, quello del dietro le quinte della televisione, il cui cantore per eccellenza è Aaron Sorkin, figura di culto dei seriofili pseudo-intellettuali e narratore blasonato dell’intellighenzia americana, le cui creazioni sono generalmente fantasie liberal di efficienza e professionalità con personaggi maschili brillanti e infallibili attorniati da comprimarie femminili idealizzate o stereotipate.

The Morning Show - Stagione 1The Morning Show non ha paura del confronto con Sorkin, ma non è neppure intenzionata a distruggere l’eredità sorkiniana. Anzi, con grande senso della misura riesce a valorizzarne gli insegnamenti, costruendo una narrazione corale dal ritmo incalzante che racconta lo stesso tipo di efficienza delle Newsroom di Sorkin con lo stesso tipo di rispetto per il ruolo culturale dei media e la stessa ammirazione per il mestiere del giornalista, ma inserendo l’elemento del #MeToo a fare da grimaldello per indagarne anche i lati oscuri. La sopraffazione, l’ambizione, la solitudine, la difficoltà a bilanciare vita e lavoro emergono con potenza nella serie e, se in Sorkin erano elementi così romanticizzati da perdere ogni valore di evidenza, qui risultano parte centrale del racconto.
Questo ribaltamento del tono avviene prima di tutto grazie alla scelta del tipo di show raccontato: non un semplice programma di news ma uno show del mattino, che richiede di alzarsi nel mezzo della notte e sacrificare, quindi, buona parte della propria vita privata al sonno (addio uscite serali, addio ritmi in comune con i propri partner) e a trasferte improvvise che rendono impossibile uno stile di vita ordinato, così come rende necessario essere non soltanto giornalista, ma anche una figura di riferimento teoricamente neutra e super partes, quella che “entra nelle case della gente” ogni mattina, condannata alla medietà del punto di vista e alla mediocrità della prestazione per essere una figura in cui tutti possano identificarsi, rassicurante, innocua.

La protagonista Alex Levy lo fa da quindici anni quando la conosciamo e al lavoro ha sacrificato la propria famiglia e la propria identità di donna, ormai così fusa col ruolo pubblico di moglie d’America da guardare anche a se stessa con lo stesso filtro di indulgenza e non essere più capace di distinguere tra persona e personaggio. Jennifer Aniston la interpreta con sottile sarcasmo, con una recitazione capace di mettere il luce la sua costante recita nella vita e la sua incapacità di liberarsi di quella convenzionalità forzata che la sua professione ha reso così necessaria. Quando arriva il terremoto del #MeToo nella sua vita, col licenziamento per molestie del partner di una vita Mitch Kessler (uno straordinario Steve Carell), il suo primo istinto è quello di contenere i danni, sfruttare l’occasione a proprio vantaggio ma continuando a recitare la parte dell’innocua e materna figura femminile di riferimento che le è stata cucita addosso.
La serie è magistrale nel ritrarre i meccanismi di un sistema che difende se stesso attraverso la trasformazione delle persone in ingranaggi, che perpetuando il ruolo che è stato loro cucito addosso senza accorgersene, assicurano il funzionamento della macchina; se tutti continuano ad essere quel che a loro viene richiesto e tutto continua business as usual, anche i Mitch della situazione possono venire riassorbiti, trattati come spiacevoli eccezioni anziché prodotti di quel sistema. Come Alex, anche il producer Charlie e tutta la squadra di produzione tendono, sempre, alla salvaguardia del programma come se esso stesso fosse un’entità a parte, un patrimonio da conservare intatto e immutato anche di fronte a un palese cambiamento sociale e culturale che lo investe.

The Morning Show - Stagione 1Ovviamente non ci sarebbe storia senza l’elemento di caos introdotto dalla nuova co-conduttrice Bradley Jackson e attraverso di lei, dall’ambizioso dirigente Cory Ellison (che Billy Crudup interpreta brillantemente, rendendolo un chaotic evil forse non particolarmente tridimensionale ma sicuramente spassoso). La loro mancanza di attaccamento al programma e la loro volontà di rottura, animata da intenzioni estremamente diverse che però arrivano a convergere, finirà per minare a poco a poco anche l’apparentemente inscalfibile fedeltà di tutti gli altri, fornendo la miccia per l’esplosione di un ambiente di lavoro che è pervaso da sempre di un livello altissimo di tossicità dei rapporti, tollerato e soffocato in nome di un obiettivo più grande che via via perde il suo valore originario, risvegliando non tanto le coscienze quanto la personalità di tutti. Essendo il #MeToo è ancora una ferita aperta, tutt’altro che elaborata, le cui conseguenze sono impossibili da prevedere ma che si delinea già come stravolgimento epocale dei ruoli di genere e forse, di un’intera industria, era impossibile raccontarlo in altro modo che con l’implosione di un programma che di quell’industria assurge a simbolo.
The Morning Show è però molto attenta a non cadere nella fantasia liberal dall’altro lato, ovvero non ritrae Mitch come un cattivo bidimensionale e tutti gli altri come oneste vittime di una sistema corrotto, anzi preme forte sul pedale della contraddizioni di ognuno e del ruolo che l’interesse personale, le emozioni e i sensi di colpa hanno in questo risveglio delle coscienze giornalistiche: qui non si parla, come in Sorkin, di un gruppo di individui eccezionali che combattono l’ipocrisia del sistema ma di una serie di bravi professionisti e gregari, tutti perfettamente inseriti in quel sistema, che realizzano quanto dei propri desideri e interessi abbiano sacrificato ad una macchina che li considera, in fondo, soltanto pezzetti sostituibili, ed è da questo ragionamento tutt’altro che altruistico e nobile che si innesca il desiderio del cambiamento.

The Morning Show - Stagione 1Finalmente abbiamo visto una serie capace di analizzare la complessità di un fenomeno come il #MeToo riuscendo a evidenziarne le caratteristiche sistemiche, indagando su una società fatta di persone che non sono mai buone o cattive ma semplicemente giocano con regole che hanno interiorizzato, incapaci di vederle finché non arriva un momento di rottura che fa cadere la cortina della loro sacralizzazione. Con raffinata intenzione satirica, ma con il necessario realismo nell’approfondimento dei personaggi, The Morning Show riesce a fare brillantemente un discorso compiuto sulle cause delle molestie sul lavoro e sul ruolo delle donne nel mondo dello spettacolo (compresa la loro rappresentazione bidimensionale), dicendo chiaramente che di fronte a un sistema così articolato e organizzato per difendere se stesso la ribellione singola e isolata è inutile: è invece necessario un cambiamento radicale e una consapevolezza superiore del proprio ruolo in quel sistema.

È stato così confezionato uno dei migliori prodotti dell’anno televisivo appena concluso, facendo passare a pieni voti ad Apple TV+ la prova più importante, quella che riguarda visione e strategia nella realizzazione dei suoi prodotti, anche grazie a una programmazione settimanale teoricamente incoerente col proprio mezzo distributivo ma rivelatasi vincente per incrementare buzz e attesa, generando una conversazione critica intorno alla serie che è cresciuta di settimana in settimana.

Voto stagione: 8

Condividi l'articolo
 

Informazioni su Eugenia Fattori

Bolognese di nascita - ma non chiedete l'età a una signora - è fanatica di scrittura e di cinema fin dalla culla, quindi era destino che scoprisse le serie tv e cercasse di unire le sue due grandi passioni. Inspiegabilmente (dato che tende a non portare mai scarpe e a non ricordarsi neanche le tabelline) è finita a lavorare nella moda e nei social media, ma Seriangolo è dove si sente davvero a casa.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

6 commenti su “The Morning Show – Stagione 1

  • Hugo Drodemberg

    @Eugenia: come sempre ho trovato il tuo articolo bello e interessante, ma stavolta mi sento di dover contribuire in quanto maschietto, perchè questa è una serie molto importante anche per come ritrae il PUBBLICO maschile. Mi spiego.
    La questione femminista è salita alla ribalta ormai da qualche anno: non è un risveglio di coscienza, mi pare, chè ho amiche femministe da una vita, è soprattutto un’esposizione mediatica dovuta al fatto che, molto banalmente, ci sono sempre più donne influenti nel mondo dei media (evviva). Nella mia percezione l’emancipazione della donna è un dato sì in divenire ma anche DI FATTO, basta davvero dare tempo al tempo. Ovvio che bisogni ancora impegnarsi e contribuire per realizzarla, ma per fortuna è evidentemente la tendenza a parificare i generi/genders. Molto meno chiaro, invece, è COME farlo, se sottolineando le mancanze degli uomini nei confronti delle donne o se sottolineando le mancanze della SOCIETA’ nei confronti della parità di genere, ovvero METTERE UN GRUPPO POTENZIALE DI POTERE CONTRO UN ALTRO invece che cercare di integrarli e armonizzarli.
    In tutto questo, la questione del #metoo è stata per moLTI la goccia che ha fatto traboccare il vaso: una vera e propria “caccia agli stregoni” finita con accuse al limite del ridicolo (per me il ragazzo che accusava Asia Argento di averlo stuprato è stato il non-plus-ultra), con una valanga di assoluzioni, e con qualche grandissimo artista ingiustamente rovinato, da Louie CK a Kevin Spacey (poveretto, ha dovuto fare pure outing per essere scagionato, ma te pare?!?). Insomma il #metoo per me ha rappresentato il momento in cui la critica femminista ha iniziato ufficialmente a “pisciare fuori dal vaso” (termine davvero inappropriato, ma non me ne vengono altri), perdendo di vista l’uguaglianza e concentrandosi sui comportamenti odiosi di ALCUNI uomini a dispetto di un sistema, quello cinematografico, in cui la promiscuità l’ha sempre fatta da padrona, qualsiasi fosse il tuo sesso.
    The Morning Show, come la recente e bellissima Unbelievable, secondo me ha rimesso un po’ le cose a posto, trattando i personaggi come PERSONE e non come esponenti del proprio sesso.
    Per me, serie dell’anno con Chernobyl e Watchmen (è che sono un fan del fumetto, capiscimi)

     
    • Attilio Palmieri

      Ciao Hugo, mi sembra che ci sia un po’ di confusione sia sul #MeToo, sia sui singoli casi (da Spacey a CK) sia sulla critica televisiva e sui suoi rapporti con il femminismo.
      Innanzitutto se ancora c’è bisogno, nel 2020, di fare passi per “l’emancipazione della donna”, come se si trattasse di un animale in via di evoluzione, significa che c’è un problema grosso. E se ci sono sempre più serie e film realizzati da donne è perché tante donne e qualche uomo si sono battute caparbiamente per denunciare ogni tipo di sopruso e abuso, per metterlo a sistema e collegarlo con la produzione artistica e il giudizio della medesima da parte della critica e dell’industria. Persone che sono andate avanti convintamente anche quando altri le insultavano dicendo loro che stavano “pisciando fuori dal vaso” che si stava “iniziando a esagerare”.
      L’impatto che ha avuto il #MeToo sul mondo dell’audiovisivo e in generale sulla nostra cultura è incalcolabile e negli Stati Uniti (in molte parti degli Stati Uniti) è chiarissimo anche solo se si scambiano due chiacchiere con le persone per strada. In Italia molto meno perché siamo molto arretrati da questo punto di vista, siamo un paese più bigotto, più propenso alla conservazione e meno incline al miglioramento, oltre che più sessista e patriarcale.
      Spacey e CK hanno avuto ricevuto accuse pesantissime da tante donne e uomini e a un certo punto nell’industria americana in tanti hanno smesso di volerci avere a che fare, sia per un fatto di immagine, sia perché altrimenti tante donne e qualche uomo si sarebbero messi di traverso, facendo saltare in aria intere produzioni. Questo solo grazie a chi ha fatto gruppo, a gente come Oprah Winfrey, come Jill Soloway, come Reese Witherspoon e tante altre altre che hanno animato Time’s Up, il MeToo, il movimento 50/50×2020 e tante realtà che si stanno inserendo nelle maglie di Hollywood sempre più in profondità.
      E la critica? La critica negli Stati Uniti sta diventando sempre più permeabile a questi cambiamenti, mettendosi in discussione prima di tutto dando tantissimo spazio a donne di grande talento e in grado di spingere anche gli studiosi più navigati, competenti e autorevoli come Matt Zoller Seitz a mettersi in discussione e approcciare i testi con una lente sempre più femminista. In Italia invece questo è molto più difficile per le ragioni di cui sopra, ma per fortuna siamo in un piano inclinato e non si potrà che finire lì.

       
      • Hugo Drodemberg

        A me non sembra affatto che le donne abbiano più voce negli USA che in Italia, anzi, mi sembra che negli Stati Uniti la critica femminista sia stata più velocemente assorbita e vomitata che in Italia: in fondo siamo europei e spesso dimentichiamo quanto il femminismo sia più radicato nella nostra tradizione piuttosto che in quella americana.
        Detto questo, non hai spiegato perchè i casi di Spacey e CK sarebbero fuorvianti (quando per me sono invece abbastanza rappresentativi) quando a me sembrano parecchio illuminanti.

         
        • Hugo Drodemberg

          PS La questione femminile non è nata ieri, è millenaria. Ad oggi il problema sono i rapporti di forza, NON la legittimità dell’equiparare donne e uomini. Su quello siamo tutti d’accordo, a parte qualche musulmano immigrato per sbaglio e pochi altri

           
  • fabrizio

    Bella serie, anche se purtroppo, come spesso accade, butta via molte delle sue potenzialità nei tre minuti finali. Dopo due episodi magistrali (ultimo e penultimo) non ha il coraggio di essere cinica fino in fondo e si risolve con due banalità: il suicidio di Anna, soluzione troppo semplice, con cui si uccide anche la complessità del personaggio che avrebbe potuto invece far emergere l’ambiguità di fondo di tutta la faccenda del MeToo. Ma soprattutto la redenzione finale di Alex, con l’assurda pantomima in diretta delle due conduttrici, una di quelle cose che ai miei tempi si chiamava una “americanata”. Talmente assurda che non si sono nemmeno presi la briga di scriverla, e difatti la mandano sullo sfondo. Essendo Alex il personaggio peggiore di tutta la vicenda, l’incarnazione dell’egoismo e dell’opportunismo carrieristici, non si poteva lasciare l’immagine pubblica di Jennifer Aniston senza un riscatto finale. Infine Cory, figura interessante che resta però totalmente irrisolta, a metà tra il deus ex-machina e lo schizofrenico di successo.

     
  • Eugenia Fattori L'autore dell'articolo

    Volevo solo dire che leggo con colpevolissimo ritardo con interesse i vostri commenti, e che nonostante non sia totalmente d’accordo volevo fare i complimenti sia a Hugo che a fabrizio per la civilità e la sensatezza.