Non sono poche le serie che in questi ultimi anni si sono occupate della gentrificazione – quella trasformazione che va a colpire zone popolari di alcune città rendendole in poco tempo molto più attrattive, con un conseguente miglioramento della vita ma anche aumento dei prezzi e modifica del tessuto sociale preesistente; e, soprattutto in tempi recentissimi, lo scenario televisivo è mutato al punto da accogliere, finalmente, istanze e temi prima mal (o addirittura mai) rappresentati, come questioni identitarie, queerness, mondo latino-americano. L’apertura del mercato grazie alla gara sempre più competitiva tra network, cable e piattaforme di streaming audiovisivo ha reso possibile un ampliamento non solo dei generi narrativi e degli argomenti trattati, ma anche delle writers’ room e delle produzioni stesse (molto più diversificate al loro interno) .
In quest’ottica di grandissima variazione si inserisce la nuova serie Netflix Gentefied, creata a partire da una web series del 2016 da Marvin Lemus e Linda Yvette Chávez, che vede tra i produttori esecutivi anche America Ferrera – famosa per Ugly Betty e Superstore, ma anche come attivista latinx – e che rappresenta una summa delle diverse tematiche sopra esposte, che abbiamo visto in questi anni svilupparsi, a volte singolarmente, altre in gruppo, in alcune importanti serie.
Partiamo quindi dalla storia di base di Gentefied: la trama gira attorno alle vicende di una famiglia latino-americana, i Morales, che vive a Boyle Heights, quartiere dell’East Side di Los Angeles, caratterizzato da una forte componente latinx e oggetto negli ultimi anni di grandi tensioni a causa di tendenze verso una gentrification che vengono avversate dalla comunità locale, spaventata dall’idea di essere cancellata e di subire quello che già altri quartieri hanno attraversato con il cambiamento del mercato e le ricostruzioni sociali di altre zone simili.
ATTENZIONE: in questo articolo di approfondimento ci sono spoiler su Gentefied e, in misura minore, su Vida.
Tra familia e identità personale: una dramedy bilingue
Ciò che salta all’occhio sin dal pilot è il fatto che in questa dramedy bilingue ci troviamo davanti a una famiglia non intesa in quel senso canonico e “tradizionale” che le family series hanno raccontato nella maggior parte dei casi negli ultimi anni: i Morales protagonisti delle vicende sono infatti tre cugini accomunati da un nonno e dalla taqueria di famiglia, ma soprattutto da una capofamiglia deceduta e che tuttavia rappresenta il fulcro di ogni discorso, il fine ultimo di ogni azione e di ogni pensiero rilevante durante la stagione. Delfina Morales non appare se non in forma di flashback e comunque per pochissimo screentime, ma la taqueria che porta il suo nome – il Mama Fina – è a tutti gli effetti la vera protagonista delle vicende, punto di partenza per la serie – i Morales rischiano sin da subito lo sfratto – e punto di approdo e di ritorno per ciascuno di questi “figli” in difficoltà.
Non è difficile individuare nella recente produzione seriale degli importanti predecessori, senza i quali Gentefied probabilmente non esisterebbe: pensiamo a Jane The Virgin e a One Day at a Time, nel primo caso più che nel secondo per la presenza del bilinguismo, ma in entrambi i casi come rappresentazione di un mondo di immigrati di prima e seconda generazione i quali – che vengano dal Messico o da Cuba – devono necessariamente confrontarsi con domande sulla propria identità, sul proprio posto nel mondo a metà tra tradizione e innovazione, tra rispetto del proprio retaggio culturale e apertura all’attuale mondo di appartenenza – quegli Stati Uniti dell’American Dream che però può essere conquistato solo pagando un forte pegno in termini individuali e familiari.
Se parliamo di familia e identità personale, il confronto tra i cugini Morales risulta particolarmente interessante per alcuni significativi dettagli. Innanzitutto notiamo come, a parte Beatriz (la madre di Ana), gli altri genitori siano completamente assenti, o al massimo presenti solo in forma di rapporto telefonico (il padre di Chris): la serie non ci spiega mai interamente il passato dei protagonisti, ma entra nelle loro vicende in medias res, facendoci percepire le conseguenze di ciò che è successo precedentemente senza indugiare in spiegazioni ma costruendo la storia su reticenze che, lungi dall’essere percepite come mancanze, alimentano invece l’interesse dello spettatore per questi personaggi. Troviamo quindi dei protagonisti fortemente realistici, ma soprattutto lontani da qualunque tipo di cliché (il loro avere difficoltà economiche non li rende affatto degli emarginati sociali e culturali, anzi: Erik ha un passato certamente complesso ma è un vero appassionato di libri e cultura; Ana vive ancora di lavoretti ma è un’artista eccezionale; Chris appare come quello più realizzato a livello lavorativo, economico e di istruzione, ma è quello che più degli altri lotta per la sua identità messicana, che viene costantemente messa in discussione sia in famiglia che sul lavoro). A tenere le redini di questa famiglia così atipica, come dicevamo, è il nonno, Casimiro ma per tutti Pop, che, nel cercare aiuto per salvare il suo locale, sarà invece in prima fila con ciascuno dei nipoti per indirizzarli sulla giusta via, ma anche per imparare da loro cosa voglia dire rispettare le proprie radici abbracciando al tempo stesso un cambiamento a dir poco necessario. Un esempio su tutti è il momento in cui Pop permette a Chris di sperimentare con i tacos: le sue variazioni gli piacciono più di quanto si aspetti, ma non riescono a conquistare completamente la clientela; ciononostante, Casimiro coglie la spinta al cambiamento ritrovando la voglia di mettersi ai fornelli e mettendo in discussione se stesso, il suo locale e i suoi modi di portare avanti la fama del Mama Fina.
Questo tipo di complessità di analisi, che emerge col passare delle puntate, va di pari passo a quella della narrazione: come si diceva poco più su, la serie è una dramedy, in grado di mescolare temi delicatissimi a momenti comici di tutto rispetto – basti pensare al test di “identità messicana” cui viene sottoposto Chris nella terza puntata, “Bad Hombres”, diretta, come la successiva, da America Ferrera –, ma soprattutto capace di giocare con i generi in un modo che richiama la già citata Jane The Virgin. Scene come quella di Erik mentre immagina la proposta di matrimonio a Lidia in una maniera che ricorda molto da vicino il mondo delle telenovelas sia a livello attoriale che registico, o certi cold open musicali volti a farci percepire lo stato d’animo dei personaggi, evidenziano una sinergia incredibile tra la writers’ room e la regia, che, a parte i primi due episodi diretti da Marvin Lemus, è nei restanti otto totalmente al femminile.
Tra questi momenti di introduzione-musical si segnalano per l’altissimo livello raggiunto sia quello di Ana nel quinto, splendido, episodio “The Mural” (che manifesta la gioia della ragazza finalmente in possesso dei mezzi economici per comprare i materiali per dipingere), sia quello della madre Beatriz in “Women’s Work”, che sottolinea, a livello di immagini e di musica, lo sfruttamento del lavoro in fabbrica con una rappresentazione che potremmo definire un “Tempi Moderni” 2.0.
Non c’è da stupirsi davanti al forte realismo di questi personaggi: sia Lemus che Chávez sono figli di immigrati che hanno a lungo lottato per comprendere il loro posto nel mondo, diviso, esattamente come per i Morales, fra tradizione e innovazione, sempre spinti dalle eterne domande che sembrano un mantra tra gli immigrati di seconda generazione: a quale posto appartengo veramente? Devo davvero scegliere? Perché non trovo un posto dove sentirmi realmente me stesso, a casa? Per ciascuno di loro la risposta è strettamente personale, ma la questione è ben più ampia: è un argomento di dimensioni sociali, fondamentale in questi tempi in cui più le culture si mescolano e più c’è chi vorrebbe alzare i muri e dividere. Ed ecco che quindi, sul finale, arriva la minaccia dell’ICE a mettere a rischio quell’equilibrio che sembrava quasi raggiunto: una nota amarissima, che, oltre a raccontarci un fenomeno terribile già messo in scena dalle serie citate, mette in luce come Gentefied sia molto più profonda di quanto potesse sembrare ad un primo superficiale sguardo.
Queerness, femminismo e mascolinità tossica
Sul versante dell’identità personale è impossibile non parlare di queerness, femminismo e mascolinità tossica, argomenti che vengono costantemente trattati in un modo che di certo risulta meno elaborato rispetto ad altri show di riferimento (come ad esempio Vida, la serie con cui Gentefied ha più in comune, come vedremo più avanti), ma che proprio per la naturalezza con cui vengono gestiti rendono ancora di più la sensazione di quanto siano temi già profondamente inseriti all’interno della nostra società e per questo imprescindibili.
Per quanto riguarda la mascolinità tossica, è davvero una ventata di aria fresca vedere come il tema possa essere affrontato con serenità e accettazione anche da parte del mondo maschile, e sono ottimi in questo senso i segmenti legati alla relazione tra Erik e Lidia (una coppia con un passato complicato ma che vive del costante stimolo che entrambi riescono a darsi a vicenda) e alle conversazioni tra Erik e Pop a questo riguardo. Altrettanto interessanti sono alcuni accenni a questi temi inseriti qua e là nella stagione, come la scena in cui Chris, imbarazzato, prende in giro il cugino dicendogli di smetterla di fare mansplaining alla consulente (interpretata da America Ferrera) cui si stanno rivolgendo per i problemi della taqueria. Un modo, questo, per inserire nell’ambito delle normali conversazioni quotidiane tematiche che fino a cinque anni fa sarebbero state impensabili nei dialoghi di una qualunque serie.
Sulla questione queerness e mondo LGBTQ+ la rappresentazione tocca un ampio ventaglio di approcci, che vanno da quelli più leggeri, come la festa di Tim in cui Ana va a lavorare portandosi dietro Chris, passando per quelli più normalizzanti – la storia d’amore tra Ana e Yessika che, a parte la madre Beatriz, trova completa accettazione da parte di tutti, compresa la giovanissima Nayeli che gira un breve documentario su di loro per il progetto di catechismo (!) giustificandolo con un dolce e semplicissimo “Love is love!” – fino ad arrivare a quelli più complessi, che coinvolgono il travagliatissimo murales commissionato da Tim ad Ana.
Ed è proprio sul tema dell’arte di Ana e in generale del lavoro – quello artistico per lei, quello culinario per il Mama Fina – che il discorso sull’identità personale e sulla queerness si mescola in modo indissolubile con la gentrification, toccando picchi che ultimamente solo Tanya Saracho e la sua writers’ room con Vida avevano raggiunto.
Gentrification e Gentefication: una differenza culturale
Qui è necessario fare un passo indietro e parlare, più che di gentrification, della “gentefication”, ossia la gentrificazione dei quartieri latinx da parte di persone latinx. Se sul primo tema già altre serie anche in passato avevano lavorato in modi diversi (dalla versione più leggera di Unbreakable Kimmy Schmidt a quelle più impegnate di Show Me a Hero o Shameless, per fare solo qualche esempio), la “gentefication” risulta ancora più complessa: non solo mette in campo la lotta tra i latinx e gli americani, che vogliono appropriarsi di quartieri sfruttando la loro autenticità per farli diventare terreno di mercati speculativi soprattutto a livello edilizio, ma anche quella all’interno delle comunità latino-americane, divise tra coloro che vogliono preservare la tradizione a tutti i costi e chi, pur di sopravvivere, decide di scendere a qualche compromesso, visto come inevitabile se non si vuole scomparire.
È un terreno delicatissimo, questo, che abbiamo già visto con Vida (anche in quel caso, la storia è incentrata su un locale che prende il nome da una mater familias che non c’è più e sulle vicende delle discendenti che si ritrovano a doverlo e volerlo salvare a tutti i costi, anche se questo vuol dire innovarsi e rinnovarsi per stare a galla). Non è un caso che sia Vida che Gentefied siano ambientate entrambe nello stesso quartiere, quel Boyle Heights citato all’inizio, e che in entrambe le serie ci sia una diatriba legata a un murales: l’identità culturale passa inevitabilmente attraverso la cultura, l’arte e anche la musica – in Vida la musica dal vivo selezionata per salvare il locale, qui quella dei mariachi che caratterizza l’intero sesto episodio.
In Gentefied il problema si ripropone, sia con il murales di Ana – cui si collega anche l’omofobia di certa parte della società, che ancor prima dell’invasione di Tim mette alla gogna il murales per ciò che rappresenta, ossia il bacio tra due uomini in maschera da luchadores –, sia nella questione complicatissima del tour gastronomico ideato per permettere al Mama Fina di non chiudere i battenti. Lemus e Chávez non prendono mai davvero posizione, e questo non per mancanza di coraggio, ma perché è praticamente impossibile non condividere entrambe le istanze rappresentate: da una parte quella di chi combatte per mantenere vive le proprie tradizioni e identità, per non farle sfruttare “dall’uomo bianco” (esemplare in questo senso il modo con cui Tim “vende” Ana come artista “del barrio”, sottolineando con un paternalismo insopportabile la sua condizione di appartenente a una minoranza); dall’altra quella di chi, pur volendo onorare la propria tradizione, si rende conto che non può farlo se non facendosi anche solo in parte contaminare dalla cultura del paese che abita, ma scegliendo scientemente come farlo e a quali condizioni.
Nel caso del murales la storyline coinvolge sia la gentrification che l’omofobia (in un connubio che vede Ana fatta a pezzi tra necessità di esplorare la propria arte con qualcuno che crede finalmente in lei e senso di colpa nei confronti di Ofelia e del suo negozio, e questo nonostante l’omofobia dichiarata sia dalla donna che dalla comunità). Nel caso del Mama Fina, però, tutto si complica all’ennesima potenza, perché la vicenda da sociale si fa personale a causa del rapporto tra Ana e Yessika: quest’ultima, divisa tra il suo attivismo e il legame con la famiglia Morales, si trova nella stessa condizione di Marisol in Vida, ossia obbligata per i propri ideali ad opporsi a quella gentefication che nella sua testa equivale a “erasure”, cancellazione (altro termine in comune tra le due serie), ma costretta dall’amore a fare i conti col tormento interiore di andare contro una famiglia che l’ha sempre accettata e benvoluta sin da ragazzina.
La situazione assume tratti drammatici e persino umilianti proprio sul finale, quando entrambe le questioni, il successo artistico di Ana e il destino del Mama Fina, si intrecciano nel modo peggiore possibile: Ana scoprirà alla sua prima mostra che tutti gli sforzi dei cugini e del nonno sono stati inutili quando una potenziale cliente, ignara di chi lei sia, le commissionerà il rifacimento proprio del locale di famiglia, venduto dal padrone del negozio all’insaputa dei Morales. La reazione di Ana – “Raza not for sale” scritto a caratteri cubitali sulla sua presentazione – e quella di Tim, che non capisce il suo dolore ma anzi lo scambia per una splendida performance, dicono più di quanto potrebbe raccontarci un intero trattato sulla gentrificazione.
La rappresentazione di tali conflitti è forse l’elemento più riuscito di questa prima stagione (la seconda non è ancora stata annunciata, ma vista la conclusione della prima si spera chiaramente che il rinnovo arrivi presto): sotto l’apparente leggerezza di molto passaggi, cambi di opinione ed elaborazione di strategie per evitare lo scontro – come il video con cui si cerca di far passare la protesta per un “evento”, o il tentativo di far sotterrare l’ascia di guerra “dalla bambina e dal vecchio” –, ad un’analisi più profonda sono chiare tutte le incredibili stratificazioni che costruiscono, pezzo per pezzo, un conflitto impossibile da sanare, in cui entrambe le parti hanno ragione e torto al tempo stesso.
A dimostrazione di quanto il tema sia di scottante attualità, proprio due anni fa, durante le riprese della seconda stagione di Vida, la produzione andò incontro a numerosi problemi con una delle comunità di attivisti di Boyle Heights che accusava lo show di sfruttare la loro storia traendo profitti proprio dalla rappresentazione delle lotte interne al loro quartiere. Una sorta di cortocircuito culturale, che ha visto da una parte Tanya Saracho e tutta la produzione cercare il più possibile di comunicare con queste parti di comunità per trovare un compromesso; dall’altra molti cittadini schierarsi al fianco dello show e contro la comunità “Defend Boyle Heights”, proprio per l’accuratezza con cui gli autori si sono impegnati a mettere in scena questa difficilissima questione.
È quindi chiaro come una serie che all’apparenza e dal pilot poteva sembrare decisamente più leggera si configuri in realtà come un’eccellente sintesi di determinate tematiche affrontate in questi ultimi anni, che di sicuro per questo non spicca per originalità ma semmai per capacità di incamerare gli stimoli offerti dalle narrazioni passate e riformularle prendendo il meglio che gli show precedenti hanno saputo offrire. Gentefied risulta quindi una serie imperdibile per i temi sociali toccati, per le modalità con cui vengono affrontati e anche per dare il giusto riconoscimento a uno show creato da chi, in questi personaggi, ha messo letteralmente la propria vita per raccontare la propria storia. Si tratta di persone che, per raggiungere questo obiettivo, hanno organizzato una writers’ room a prevalenza femminile e/o queer, con un gruppo alla regia spiccatamente femminile, cosa che evidenzia ancora una volta come l’importante tendenza a dare maggior attenzione a questi aspetti – tutt’altro che dettagli – arrivi proprio da quella comunità latino-americana che fino a pochi anni fa era ampiamente bistrattata, sia dal mondo dei network che delle cable tv; una comunità che invece, oggi, è tra le più rivoluzionarie del mondo della serialità.
Recensione perfetta, as always, Federica. A me questa serie è piaciuta. Diverte e fa pensare, con personaggi che ti restano dentro. Complimenti.
Grazie mille, Genio! Anche io devo dire che a distanza di settimane ogni tanto ci ripenso, non solo perché TACOS 😂 ma anche per come sono stati costruiti i vari personaggi e soprattutto i loro rapporti, spero davvero tanto in una seconda stagione perché non vedo l’ora di sapere come andrà avanti!