Con il doppio finale “Whenever You’re Ready”, The Good Place, la serie NBC creata da Michael Schur, giunge a una definitiva e soddisfacente conclusione. Forte di un high concept originalissimo e di un parco personaggi a cui è impossibile non affezionarsi, lo show è stato in grado di inanellare una serie di plot-twist tanto coerenti con la narrazione quanto inaspettati, stravolgendo ripetutamente le carte in tavola e reinventandosi costantemente, senza per questo perdere di vista il lavoro di approfondimento e crescita portato avanti non solo su Eleanor e i suoi compagni, ma anche su Michael e Janet.
Il risultato è una “philosophical fiction” che mischia in maniera impeccabile e inedita elementi comedy, fantasy e drama, bilanciando la peculiare comicità di Schur (The Office, Parks and Recreation, Brooklyn Nine-Nine) con l’esplorazione di temi come l’etica, la giustizia e il miglioramento di se stessi e del rapporto con gli altri.
Dopo la geniale rivelazione della terza stagione, in cui apprendiamo che il sistema di accesso al Good Place è ormai totalmente inadatto a valutare l’agire dell’uomo nella contemporaneità – fornendo in questo modo un puntualissimo commentario delle terrificanti ramificazioni globali del capitalismo –, la quarta annata si apre con l’inizio dell’esperimento di auto-miglioramento nell’aldilà progettato da Michael e Chidi.
Resettando nuovamente il racconto, Schur e la sua writers’ room danno vita a una nuova variazione sul tema del concept dello show, questa volta trasformando i suoi protagonisti da cavie a mentori. Nonostante l’inesauribile creatività della serie, va però detto che queste iterazioni, per quanto coerenti con lo sviluppo del racconto, rischiano di tanto in tanto di risultare ripetitive: è forse questa sensazione che impedisce alla prima parte della stagione di raggiungere i picchi qualitativi a cui la serie ci ha abituato in passato, pur restando ampiamente godibile. Per fare solo un esempio, parlando delle new entry è impossibile non citare Brent, un esilarante quanto realistico concentrato di white male privilege.
È solo con l’apparente fallimento dell’esperimento e l’iniziale decisione del Giudice di resettare l’umanità che The Good Place torna veramente a brillare. L’idea di estendere il processo di crescita morale dei protagonisti a tutti gli abitanti del Bad Place presenti e futuri rappresenta infatti il perfetto compimento del sostrato tematico-filosofico messo a punto da Schur in questi anni, ribadendo che sono i rapporti umani a rendere al tempo stesso necessario e (quasi) sempre possibile questo costante miglioramento. Si tratta di una visione dell’umanità estremamente ottimistica ma non per questo banale o sdolcinata, innanzitutto perché trova un solido fondamento nel percorso stesso di Eleanor, Chidi, Tahani e Jason.
A ben vedere, la messa a punto di un nuovo e più giusto sistema di gestione dell’aldilà, insieme all’arrivo del Team Cockroach nel vero Good Place, avrebbe potuto rappresentare un finale più che soddisfacente per la serie. Schur decide però di fare un passo ulteriore, dedicando le ultime puntate alla descrizione di questa versione del paradiso e, indirettamente, all’analisi delle peculiarità dell’esistenza sulla Terra, completando così il suo personalissimo ritratto dell’umanità. L’ultimo grande plot-twist che ci regala la serie è infatti rappresentato dalla messa in scena dei limiti di un’eternità di perfezione, come a sottolineare che è proprio la consapevolezza della fine a riempire di senso la nostra vita, anche in un ipotetico aldilà. Dopo un’ultima azione riformatrice, in cui Eleanor e gli altri pongono rimedio all’apatia degli abitanti del Good Place, giungiamo quindi a “Whenever You’re Ready”, in cui uno ad uno tutti i protagonisti decidono, dopo innumerevoli Jeremy Bearimy di beatitudine, di abbandonarlo.
Si tratta di un finale che rende perfettamente giustizia al percorso di crescita dei suoi personaggi, e in cui emergono nuovamente dei parallelismi con Lost, a cui Schur si è esplicitamente ispirato. Se nella serie di Lindelof e Cuse i flash-sideways avevano proprio lo scopo di far raggiungere ai suoi protagonisti la pace interiore dopo un processo di accettazione del proprio passato, similmente l’opera di Schur ce li mostra finalmente pronti ad andare oltre: nel caso di Michael e Tahani questo si traduce in un’inversione di ruoli e nell’inizio di una nuova fase della loro esistenza, mentre per Jason, Chidi e Eleanor significa passare il varco creato da Janet e “ricongiungersi con l’oceano”. Se però la vera occasione per gli esseri umani di realizzare il loro potenziale è nell’aldilà, allora che valore ha, in fondo, la nostra esistenza sulla Terra? Con la sequenza conclusiva, Schur decide di spingersi ancora oltre nel tentativo di rispondere a questa domanda, mostrandoci come ciò che accade nell’aldilà finisca con il riflettersi sulla Terra, in una sorta di circolo virtuoso che allude molto lontanamente al concetto di reincarnazione. Il bene che Eleanor e gli altri hanno fatto tornerà infatti in qualche modo sulla Terra ad ispirare piccoli gesti di gentilezza e altruismo, andando così a confermare la teoria di Chidi.
In definitiva, nell’arco di quattro intense stagioni The Good Place ha non solo confermato, ma addirittura superato le ottime impressioni dell’esordio: lo show è infatti riuscito nell’impresa apparentemente impossibile di mettere in scena complessi concetti di etica senza mai banalizzarli, risultando al tempo stesso godibile ed esilarante, conquistandosi così di diritto un posto nell’olimpo delle migliori comedy degli ultimi anni.
Voto stagione: 8 ½
Voto serie: 8/9