I fan di Inside No.9 hanno ormai imparato che ogni stagione della serie antologica creata, scritta e interpretata dal duo inglese Steve Pemberton e Reece Shearsmith è, in ogni caso, un pozzo di creatività e di sperimentazione – narrativa e visiva. Possono esserci episodi più riusciti e altri meno, twist finali prevedibili o colpi di scena completamente inaspettati, ma quello che sorprende è la capacità dei due autori di cercare sempre nuove strade e di non adagiarsi su format consolidati.
Un esempio della continua ricerca stilistica della serie è certamente lo speciale di Halloween che ha anticipato – più di un anno fa ormai – questa quinta tranche di episodi: “Dead Line” è stato il punto massimo dello sperimentalismo di Inside No.9 che sfruttò la fruizione in diretta dell’episodio per ingannare e stupire lo spettatore, simulando un’infestazione fantasma negli stessi studi di registrazione della BBC. Un episodio che, se visto in differita, perde tantissimo della sua carica innovativa perché propriamente basato sull’interazione diretta con il pubblico che per un breve momento si è trovato a chiedersi se quello che passava su schermo stesse realmente accadendo.
La quinta stagione non si spinge così in là: non ci sono episodi così estremi, ma ciò non vuol dire che manchino le sorprese, anzi, possiamo ben dire che anche stavolta i due attori-sceneggiatori hanno provato a offrire delle varianti interessanti della loro classica struttura narrativa – quella che prevede una premessa, uno svolgimento e un colpo di scena finale che è solitamente la chiave per risolvere l’episodio.
Il primo episodio di questa annata, “The Referee Is A W***er”, si svolge all’interno dello spogliatoio degli arbitri poco prima dell’inizio di una delle partite di calcio più importanti della stagione, una di quelle in cui la gestione imparziale dei direttori di gara si rivela fondamentale affinché non si possa dire che abbiano favorito l’una o l’altra squadra. La scelta dello sport nazionale inglese come ambientazione riflette uno dei tratti più caratteristici dello show, ovvero quello di essere radicalmente legato alla cultura popolare del proprio paese, elemento che ritorna per tutta la stagione e che è certamente un valore aggiunto – perché offre un punto di vista molto specifico e culturalmente interessante – ma che per gli spettatori internazionali alle volte è un limite importante – in questo episodio per esempio si fa grande uso di termini specifici sul calcio che una persona poco informata potrebbe trovare ostici. Nonostante ciò, il primo episodio è ben costruito intorno al personaggio interpretato da David Morrissey (The Walking Dead) e riesce, in ultima istanza, a essere comprensibile a tutti perché tratta temi universali: la corruzione e le sue implicazioni morali, il conflitto di interessi quando c’è di mezzo l’amore, che sia quello per una persona o quello – che sappiamo può essere intenso e tossico – per una squadra, la pressione sugli arbitri nel mondo del calcio e, soprattutto, la necessità di tenere nascosta la propria omosessualità in un contesto ancora fortemente omofobo.
“Death Be Not Proud” è probabilmente, tra questi sei, l’episodio che potrebbe far sorgere più di un dubbio a chi non conosce i lavori precedenti di Pemberton e Shearsmith; i protagonisti della storia, infatti, sono gli stessi di Psychoville, serie della BBC del 2009 anche questa scritta e interpretata, tra gli altri, dal duo. Senza questo importante riferimento, infatti, la trama raccontata non presenta particolari guizzi di originalità, sebbene sia particolarmente straniante nel suo mixing tra elementi horror, comici e demenziali. Da segnalare nel cast la bella e brava Jenna Coleman (Clara Oswald in Doctor Who) che offre una buona prova in uno degli episodi più strani e particolari di Inside No.9, un cross-over che, visto il successo che ha ottenuto in patria, dimostra quanto gli autori siano entrati capillarmente nella cultura televisiva inglese, potendo autocitarsi e addirittura riportare in vita i loro vecchi personaggi.
I due episodi centrali della stagione sono entrambi diretti da Guillem Morales (che aveva diretto quasi tutta la terza stagione) ma non potrebbero essere più diversi: il primo, “Love’s A Great Adventure” si svolge in un arco temporale che segue l’apertura delle caselline di un calendario dell’avvento e racconta le (dis)avventure di una famiglia inglese con problemi economici, il secondo, “Misdirection”, è concentrato sull’universo della magia e della prestidigitazione; la particolarità di questo dittico è che il primo è anche uno degli episodi meno riusciti della stagione, il secondo uno dei migliori. “Love’s A Great Adventure” perde parte della sua incisività sulla costruzione della trama, non così facile da seguire e poco interessante nella sua soluzione finale, nonostante rifletta molto bene le difficoltà economiche e relazionali che un nucleo familiare tipo deve affrontare al giorno d’oggi. “Misdirection” funziona decisamente meglio anche grazie al fatto che mette in scena meno personaggi (principalmente tre) e gioca tutto sulle potenzialità narrative del funzionamento dell’illusionismo e dei trucchi di magia: sulla base di questo l’episodio si trasforma in un puzzle che solo gli spettatori più attenti avranno risolto prima della fine.
“Thinking Out Loud” è il primo episodio ad essere anche diretto da Steve Pemberton in solitaria – insieme a Shearsmith aveva già diretto due episodi della seconda stagione – e anche uno dei più interessanti, perlomeno a livello stilistico, di questa annata. I personaggi, infatti, si raccontano di fronte ad una telecamera, che può essere una webcam personale, un vlog di successo o un video di presentazione per un sito di incontri; il tutto fa pensare che siano sospettati in un caso della polizia – il passaggio da un nome ad un altro su una bacheca – ma il colpo di scena finale, ovviamente, è meno scontato di così e racconta una storia diversa. Questo tipo di regia mette in evidenza la straordinaria bravura degli attori che devono far sfoggio di tutte le loro abilità interpretative per caratterizzare dei personaggi solo attraverso dei monologhi – Inside No.9 si conferma anche come un polo attrattivo di eccezionali interpreti e li mette sempre a dura prova – che sembrano usciti da una pièce teatrale.
“The Stakeout” chiude questo ciclo di episodi ricordando tutto quello che abbiamo già detto sull’imprevedibilità dello show: il colpo di scena finale, infatti, è totalmente impronosticabile quanto alienante. Gli autori saltano da un genere all’altro con estrema facilità, si divertono a giocare con le aspettative di chi guarda piazzando indizi contraddittori e puntano alla spettacolarità della soluzione, anche se alle volte questa soluzione è così estrema da poter essere polarizzante: ci sarà chi si sentirà appagato ed eccitato dall’essere stato ingannato e chi sarà risentito per non avere avuto una conclusione soddisfacente. In ogni caso Inside No.9 genera un’emozione, un sentimento, e questo episodio è l’emblema di come Pemberton e Shearsmith abbiano ancora molte idee da portare su schermo.
In definitiva, provando a fare una difficile media degli episodi, non siamo certamente di fronte alla miglior stagione di Inside No.9 che, tuttavia, per uno show così innovativo e per due autori così eclettici e coraggiosi, vuol dire comunque essere superiori alla gran parte delle produzioni odierne.
Voto Stagione: 7 +