Se c’era bisogno di un’ulteriore prova del fatto che serie come Gomorra e Peaky Blinders avessero lanciato un nuovo filone europeo di gangster drama, ecco che arriva Gangs of London a presentarsi come loro successore ed erede. Prodotto da Sky Atlantic e dall’americana Cinemax, la serie si presenta infatti con un cast e un comparto tecnico di primissimo ordine, pronta a fare la voce grossa nel panorama seriale.
Lo scopo, apertamente dichiarato fin dalle tonalità del trailer, è quello di costruire una hit di successo in grado di rivaleggiare con serie dello stesso genere, e allo stesso tempo rinnovare il filone aggiungendo qualcosa di nuovo. La base di partenza è, del resto, almeno nelle premesse piuttosto simile a quella dei suoi predecessori: una famiglia al comando di una enorme fetta del crimine organizzato, e con dinamiche interne dai tratti tragicamente shakespeariani (e, in questo, Sons of Anarchy già aveva fatto da apripista per molte altre serie), viene chiamata a combattere una lotta cruenta per il potere, non appena il capo famiglia viene misteriosamente assassinato.
Sicuramente non la più originale delle premesse, ma fin dal titolo la serie sembra intenzionata a puntare, come elemento di novità, non tanto sulla storia quanto sul setting, ovvero la Londra dei tempi moderni, spesso raffigurata ormai al cinema e in TV solo nella sua immagine più turistica o orgogliosamente storica, e che nessun pubblico immaginerebbe come sfondo per un far west brutale e sanguinoso come solo una storia di gang criminali può offrire.
Peccato che, almeno a giudicare dal pilot, Londra sia tutto fuorché la protagonista di questa storia. Al di là di alcuni sfondi immediatamente riconoscibili, il plot potrebbe essere ambientato in una qualsiasi città del Regno Unito, tanto poco il contesto urbano della capitale è utilizzato. Una serie meno riuscita come Suburra, ad esempio, è stata in grado di valorizzare e dare un’anima alla parte più dark di una città da cartolina come Roma. Qui, al contrario, si fatica a vedere Londra come cornice viva e cuore pulsante dell’intera vicenda, e sembra più un pretesto per costruire un titolo sensazionalistico e attirare un pubblico che altrimenti non vedrebbe molte altre differenze con le altre serie citare sopra.
Dal punto di vista narrativo, la serie infatti non sembra offrire molti altri spunti e si adagia su strade già battute e personaggi già visti e rivisti: il protagonista (Joe Cole, preso proprio da Peaky Blinders) ha la monoespressione di chi deve fare la faccia cattiva ad ogni singola inquadratura, e non spicca molto nello stereotipato ruolo del classico figlio del boss avventato e spietato che si cimenta per la prima volta con il potere; la matriarca (Michelle Fairley, la Catelyn Stark di Game of Thrones) ha gli stessi tratti di tutte le donne di famiglie mafiose chiamate a sgomitare in un mondo machista e a tirare fuori gli artigli per difendere il proprio nido. Ci sono poi i conflitti con i fratelli, i traditori, l’uomo in cerca di riscatto: insomma, di cliché non ne manca uno. E così, dal punto di vista narrativo, il pilot si muove in maniera stanca e prevedibile, con colpi di scena facilmente intuibili e che non arrivano mai come vere sorprese.
Altro aspetto su cui la serie punta tentando di trovare un approccio nuovo è quello del tono, ed è qui che entra in gioco il ruolo di Gareth Evans, forse poco conosciuto ai più, ma autore di un piccolo gioiello action/pulp come The Raid. Con lui al timone, la serie acquista un respiro più cinematografico (il primo episodio dura 93 minuti), con sequenze molto lunghe in cui spesso la tensione si crea al livello visivo, grazie alla sua abilissima mano in regia e a una fotografia in grado di dare identità propria ad ogni luogo della narrazione. Il talento di Evans si avverte principalmente in un paio di momenti action ricchi di scazzottate, dove la sua abilità di coreografare scontri corpo a corpo emerge in tutta la sua eleganza/violenza.
Peccato che entrambi questi momenti arrivino un po’ fuori dal nulla, senza troppa giustificazione narrativa, come se il regista avesse dato poco peso al resto e basato l’intera scrittura sull’unico scopo di giustificare questi momenti, in cui finalmente può dare tutto se stesso e divertirsi (e molto). Finisce che la serie appaia come un tentativo andato male di americanizzare il filone gangster europeo, incastrando in malo modo una pretesa realistica di storia e personaggi con l’anima eccessiva delle scene d’azione. Si prenda come esempio Banshee (altra celebre serie non a caso targata Cinemax), dove la storia gangster non particolarmente originale prendeva nuova linfa proprio grazie all’anima esageratamente pulp in tutti gli aspetti della storia, oltre che da un’onestà di intenti di fondo. Qui, invece, l’anima caciarona sembra incastrata nel tentativo di realizzare un pulp un po’ radical chic e con la puzza sotto il naso.
Gangs of London è una serie comunque di piacevole intrattenimento, ma con troppo fumo negli occhi, facce cattive a dare una finta patina di serietà, stereotipi a non finire e scene d’azione completamente fuori contesto. Se la serie offrirà narrativamente più spunti solo i prossimi episodi ce lo diranno, ma chi è cresciuto negli anni delle gesta dei vari Thomas Shelby, Jax Teller o del clan Savastano, difficilmente troverà qualcosa di diverso o migliore a cui appassionarsi.
Voto: 5+