
Si spiegano così alcune scelte che potrebbero essere definite furbe al limite dell’inganno se non fosse che, in un mondo come quello delle produzioni di serie TV in cui la sovrabbondanza di progetti rischia di cancellare quelli più socialmente impegnati, in certi casi bisogna davvero giocarsi il tutto per tutto. È per questo (ma non solo) che la vicenda raccontata a partire dal pilot di Stateless prende le mosse da una storia che attira l’attenzione degli spettatori poiché rappresenta paure che toccano uomini e donne bianche molto più di quanto non facciano le storie legate agli immigrati: l’incubo vissuto da Cornelia Rau – australiana affetta da disturbi mentali che tra il 2004 e il 2005 ha passato 10 mesi in un centro immigrati per errori burocratici e malagestione generale – diventa l’apparente chiave di volta di una serie che ha l’intento di mostrare, attraverso quattro diverse storyline, quali effetti devastanti produca una malsana gestione del problema degli immigrati in un paese che è terra promessa per moltissimi rifugiati e che si trasforma presto in un incubo senza fine.

La miniserie si articola su quattro stroyline, come dicevamo: se quella di Sofie è l’eccezione, il caso che proprio per la sua peculiarità farà esplodere l’indignazione degli australiani – altrimenti nella maggior parte dei casi disinteressati alla questione dei rifugiati, come del resto accade in qualunque paese sia meta per gli immigrati –, Ameer, Clare e Cam rappresentano la quotidianità del dramma dei centri detentivi per richiedenti asilo, un dramma che viene analizzato da tre punti di vista differenti ma complementari.
Clare Kowitz e Cam Sandford rappresentano, seppur in modo diverso, la parte delle forze dell’ordine, l’aspetto legale e burocratico della situazione: in entrambi i casi, ma soprattutto per Cam, assistiamo lentamente ma inesorabilmente alla caduta dell’umanità e alla costruzione dell’indifferenza, quando non della rabbia e della violenza, come muro per difendersi dalla costante esposizione a quanto di più disumanizzante si possa concepire. In entrambi i casi vediamo i due protagonisti partire da una posizione di distacco – Clare ha sempre lavorato nell’ambito dell’immigrazione ma al di fuori dei campi detentivi; Cam non ne sapeva nulla prima di accettare il lavoro di guardia per questioni economiche – e arrivare nel giro di pochi mesi al punto di rottura, al bivio davanti al quale bisogna decidere chi si vuole essere.

Ad aggravare la situazione, c’è il fantasma di quanto accaduto alla donna che l’ha preceduta, Katia, per lungo tempo menzionata senza che si capisca la gravità di quanto successo: solo nell’ultimo episodio si scopre che ha avuto una relazione con un immigrato iraniano che si è poi suicidato, portando evidentemente la donna ad abbandonare il lavoro. Quella scritta, Help, che si trova incisa sulla sua scrivania, assume quindi un duplice significato come richiesta di aiuto da una parte e come imperativo che funzioni da bussola morale nel proprio lavoro: aiutare, il più possibile, laddove possibile. Il contrasto interiore vissuto da Clare è poi alimentato dal suo amico/amante e giornalista, David: la loro relazione viaggia forse un po’ troppo sul filo del cliché – sarebbe stato decisamente meglio se non avesse avuto alcuna implicazione sentimental-sessuale –, tuttavia è impossibile non vedere la decisione finale di Clare di rendere pubblica la questione Sofie Werner come fortemente influenzata dalla presenza di David, o quantomeno dalla facilità con cui questo legame consente alla donna di prendere una decisione e portarla immediatamente a compimento.
La vicenda di Cam si svolge in modo speculare a quella di Clare, avendo con quest’ultima diversi punti in comune. Anche qui abbiamo da una parte un’indole più strettamente umanitaria – basti pensare a come Cam si comporta all’inizio della miniserie, fino al momento in cui confessa le azioni di Harriet – che si trova a metà tra due poli: da un lato la sorella Janice, che Cam arriverà al punto di tradire ma che non smetterà di essere un punto di riferimento morale costante; dall’altro la responsabile Harriet, che costituisce il punto di arrivo potenziale dello stesso Cam, la raffigurazione in carne e ossa di come un luogo come Baxton possa trasformare una persona rendendola immune a qualunque genere di empatia con i migranti. È tipico in questi casi, soprattutto quando si ha a che fare con la violenza fisica, usare villain maschili, più vicini come stereotipo all’idea della perdita di controllo e dell’aggressione; avere una donna che incarni una tale degenerazione umana è una scelta precisa, che colpisce proprio perché è meno utilizzata (si tende a pensare che delle guardie donne siano per forza più empatiche degli uomini, non è così).

Per Cam è però la conferma di quanto il sistema sia marcio, di quanto sia impossibile cambiare le cose dall’interno anche se si è personalmente disposti a un sacrificio: il mancato licenziamento, che porta il resto delle guardie a pensare che l’uomo non abbia detto la verità e che quindi sia ufficialmente “uno di loro”, alimenta il senso di affiliazione al gruppo, visto come una fedeltà alla causa che conduce Cam non solo a denunciare la sua stessa sorella, ma anche ad acquisire comportamenti che hanno inevitabilmente ricadute sulla sua vita privata. La terribile scena dell’aggressione ai figli rappresenta il culmine di un percorso che, in poche puntate ma in modo veritiero e coerente, trasforma Cam da essere umano con un alto livello di empatia a macchina senza emozioni. Sarà lo scontro con un migrante, che lo metterà davanti alla realtà della situazione (“But one day… your wife and your child, they will know. They will smell it and they will know what you really are”), a condurlo al punto di rottura e alla presa di coscienza che l’unico modo per tornare a essere se stesso sia andarsene da Baxton.

Se c’è una critica che si può muovere alla gestione complessiva delle storyline, in particolare all’equilibrio tra quella di Sofie e quella di Ameer, è legata al livello di approfondimento del background dei personaggi. Per quanto i flashback di Sofie funzionino alla perfezione – capiamo tutti sin dall’inizio che Gordon ha abusato di lei, ma assistere alle scene solo nel momento in cui è lei stessa a prendere atto di quanto accaduto è senza dubbio una scelta di forte impatto –, sarebbe stato forse più funzionale averne meno su di lei e qualcuno su Ameer, la sua famiglia e la loro vita in Afghanistan. Delle motivazioni che li portano a fuggire abbiamo solo un resoconto di Ameer al centro immigrati, mentre forse sarebbe stato più appropriato avere una costruzione a tutto tondo del personaggio. È vero che Ameer è un personaggio inventato che riassume genericamente il destino di molte famiglie come la sua, ma d’altra parte anche Cam è una generalizzazione di cosa succede a una guardia che lavora in un centro simile, e lo stesso discorso vale per Clare: questo non ha impedito a Stateless di indagare sui loro personaggi, magari non affondando a piene mani dal passato ma almeno dal loro presente. Per Ameer il presente non rappresenta la sua quotidianità, la sua identità: sarebbe stato allora forse più appropriato dedicare un maggiore screentime a lui, Mina e la loro famiglia.

È possibile voltare lo sguardo altrove quando nel mondo ci sono 70 milioni di persone alla ricerca di asilo, che scappano da guerre e persecuzioni, e di cui la metà sono bambini? Siamo abituati, nelle nostre vite di persone nate dalla parte giusta del mondo, a chiedere aiuto allo Stato se siamo in difficoltà: a chi dovrebbero chiedere aiuto 70 milioni di persone (35 milioni di bambini) che sono letteralmente senza stato?
Cate Blanchett si è fatta promotrice di questa domanda, creando un prodotto che grazie a nomi di spicco (e interpretazioni eccellenti: un plauso va anche a Dominic West, inquietante e terrificante nel suo ruolo) è riuscito a raccontare un tema nient’affatto semplice, che ha convinto prima ABC Australia e poi la stessa Netflix. Se mai qualcuno si è chiesto cosa diavolo ci faccia un’attrice all’ONU come ambasciatrice di una causa qualunque, in questo caso quella dei rifugiati, la risposta si trova tutta qui.
Voto: 8½

Bella recensione Federica, ottimo lavoro!
Stateless è un cazzotto nello stomaco, un prodotto del tipo di Sulla mia pelle, anche se meno pungente, per i motivi che sottolinei. Dato che è un’opera dalla forte valenza politica, ci sono un paio di aspetti che mi sono saltati all’occhio.
Il primo è come il gioco di incentivi tra lo Stato australiano e l’azienda privata che gestisce il campo crei un equilibrio subottimale. In teoria, all’inizio, le cose sembrano giuste sulla carta, basta ricordare il training di Cam. Poi, però, arriva la realtà e vengono fuori ingiustizie e abusi, pur nel contesto di un centro non fatiscente.
Il secondo è come il sistema, particolarmente lo Stato Australiano, reagisce quando viene allo scoperto qualche verità scomoda. Purtroppo la reazione è sistematicamente di pubbliche relazioni e mai diretta ad affrontare e risolvere in meglio il problema. Insomma, il sistema sceglie sempre di buttare la polvere sotto al tappeto e truccarsi a favore delle telecamere, senza mostrare troppo rispetto per le vite degli ospiti del centro.
Stateless genera una grande simpatia per le vittime del sistema dell’immigrazione clandestina, cioè gli immigrati del centro. Ci fa vedere come, purtroppo, le loro vicende siano costellate di tragedie e trappole che li portano a fare scelte drammatiche. In questo sistema restano incagliati anche alcuni cittadini di serie A, perché perdono un po’ della loro umanità.
Ciao Michele, grazie!!!
Sono d’accordo con te, è evidente nel caso di Cam come sulla carta le cose siano strutturate per funzionare e come invece degenerino nel momento in cui, fatto il training, l’azienda in sostanza se ne lava le mani (non c’è follow up, non ci sono corsi di aggiornamento…) e quindi quel che succede succede. E allo stato va benissimo così.
Sul secondo punto, purtroppo non è solo prerogativa dell’Australia, in linea generale più o meno ovunque quando si ha a che fare con le forze dell’ordine c’è sempre un tentativo di salvare la faccia prima di capire il problema e cercare di risolverlo, perché uno scandalo ha in potenza la forza di azzerare lo status quo, e soprattutto chi è ad alti livelli ci tiene a tenere la propria poltrona… Il fatto che per questo delle vite umane passino in secondo, terzo, ultimo piano, è raccapricciante.