Stateless – Miniserie 2


Stateless - MiniserieSei puntate per raccontare il dramma della gestione degli immigrati in Australia da diversi punti di vista, da quello burocratico a quello più disumanizzante – sia per le persone detenute nel centro di Baxton che per chi ci lavora. Non era un progetto facile quello intrapreso da Cate Blanchett, Tony Ayres e Elise McCredie, soprattutto per la necessità di rendere appetibile al pubblico una storia che sulla carta poteva essere difficile da digerire: e se l’intento alla base di Stateless – soprattutto quello di Blanchett, ambasciatrice ONU per i rifugiati – era quello di mostrare le atrocità di un sistema come quello australiano, tra i più rigidi al mondo, non ci si poteva esimere dall’utilizzare qualunque carta a disposizione per rendere la miniserie prima di tutto interessante da un punto di vista produttivo, e in seconda istanza dal grande pubblico.

Si spiegano così alcune scelte che potrebbero essere definite furbe al limite dell’inganno se non fosse che, in un mondo come quello delle produzioni di serie TV in cui la sovrabbondanza di progetti rischia di cancellare quelli più socialmente impegnati, in certi casi bisogna davvero giocarsi il tutto per tutto. È per questo (ma non solo) che la vicenda raccontata a partire dal pilot di Stateless prende le mosse da una storia che attira l’attenzione degli spettatori poiché rappresenta paure che toccano uomini e donne bianche molto più di quanto non facciano le storie legate agli immigrati: l’incubo vissuto da Cornelia Rau – australiana affetta da disturbi mentali che tra il 2004 e il 2005 ha passato 10 mesi in un centro immigrati per errori burocratici e malagestione generale – diventa l’apparente chiave di volta di una serie che ha l’intento di mostrare, attraverso quattro diverse storyline, quali effetti devastanti produca una malsana gestione del problema degli immigrati in un paese che è terra promessa per moltissimi rifugiati e che si trasforma presto in un incubo senza fine.

Stateless - MiniserieSofie Werner, la controparte televisiva di Cornelia Rau interpretata in maniera eccellente da Yvonne Strahovski, solo all’apparenza costituisce quindi il centro del racconto – è lei infatti il personaggio da cui la storia prende le mosse e a cui viene dedicato il maggiore screentime, nonché una costruzione più approfondita anche grazie ai flashback; e non è del tutto sbagliato, considerando che fu proprio lo scandalo legato alla sua esperienza che portò ad un’inchiesta governativa sui centri per immigrati richiedenti asilo. Ma è chiaro che la sua storia è presente anche come specchietto per le allodole, nel senso più positivo del termine, per attirare gli spettatori e condurli – attraverso l’empatia che si può provare per la donna – ad assistere a una vicenda ben più complessa e molto più grande di lei; e lo stesso possiamo dire per la presenza nel cast di Cate Blanchett e Dominic West, un boost per la pubblicità legata alla serie, che però vede i due in un ruolo decisamente ridotto – sono infatti Pat e Gordon, la coppia che sta dietro alla setta dalla quale Sofie fugge.

La miniserie si articola su quattro stroyline, come dicevamo: se quella di Sofie è l’eccezione, il caso che proprio per la sua peculiarità farà esplodere l’indignazione degli australiani – altrimenti nella maggior parte dei casi disinteressati alla questione dei rifugiati, come del resto accade in qualunque paese sia meta per gli immigrati –, Ameer, Clare e Cam rappresentano la quotidianità del dramma dei centri detentivi per richiedenti asilo, un dramma che viene analizzato da tre punti di vista differenti ma complementari.
Clare Kowitz e Cam Sandford rappresentano, seppur in modo diverso, la parte delle forze dell’ordine, l’aspetto legale e burocratico della situazione: in entrambi i casi, ma soprattutto per Cam, assistiamo lentamente ma inesorabilmente alla caduta dell’umanità e alla costruzione dell’indifferenza, quando non della rabbia e della violenza, come muro per difendersi dalla costante esposizione a quanto di più disumanizzante si possa concepire. In entrambi i casi vediamo i due protagonisti partire da una posizione di distacco – Clare ha sempre lavorato nell’ambito dell’immigrazione ma al di fuori dei campi detentivi; Cam non ne sapeva nulla prima di accettare il lavoro di guardia per questioni economiche – e arrivare nel giro di pochi mesi al punto di rottura, al bivio davanti al quale bisogna decidere chi si vuole essere.

Stateless - MiniserieClare si trova divisa a metà tra la responsabilità che il suo lavoro di general manager comporta – e il disastro che eredita dalla gestione precedente, che ha condotto a un tale accumulo di casi da avere nel centro persone residenti ormai da anni – e la sua emotività, che per lungo tempo decide di sopprimere, spinta com’è dalla sua capa e da quello che sembra l’unico obiettivo alla base del suo mestiere: migliorare l’immagine di Baxton sui media ad ogni costo.
Ad aggravare la situazione, c’è il fantasma di quanto accaduto alla donna che l’ha preceduta, Katia, per lungo tempo menzionata senza che si capisca la gravità di quanto successo: solo nell’ultimo episodio si scopre che ha avuto una relazione con un immigrato iraniano che si è poi suicidato, portando evidentemente la donna ad abbandonare il lavoro. Quella scritta, Help, che si trova incisa sulla sua scrivania, assume quindi un duplice significato come richiesta di aiuto da una parte e come imperativo che funzioni da bussola morale nel proprio lavoro: aiutare, il più possibile, laddove possibile. Il contrasto interiore vissuto da Clare è poi alimentato dal suo amico/amante e giornalista, David: la loro relazione viaggia forse un po’ troppo sul filo del cliché – sarebbe stato decisamente meglio se non avesse avuto alcuna implicazione sentimental-sessuale –, tuttavia è impossibile non vedere la decisione finale di Clare di rendere pubblica la questione Sofie Werner come fortemente influenzata dalla presenza di David, o quantomeno dalla facilità con cui questo legame consente alla donna di prendere una decisione e portarla immediatamente a compimento.

La vicenda di Cam si svolge in modo speculare a quella di Clare, avendo con quest’ultima diversi punti in comune. Anche qui abbiamo da una parte un’indole più strettamente umanitaria – basti pensare a come Cam si comporta all’inizio della miniserie, fino al momento in cui confessa le azioni di Harriet – che si trova a metà tra due poli: da un lato la sorella Janice, che Cam arriverà al punto di tradire ma che non smetterà di essere un punto di riferimento morale costante; dall’altro la responsabile Harriet, che costituisce il punto di arrivo potenziale dello stesso Cam, la raffigurazione in carne e ossa di come un luogo come Baxton possa trasformare una persona rendendola immune a qualunque genere di empatia con i migranti. È tipico in questi casi, soprattutto quando si ha a che fare con la violenza fisica, usare villain maschili, più vicini come stereotipo all’idea della perdita di controllo e dell’aggressione; avere una donna che incarni una tale degenerazione umana è una scelta precisa, che colpisce proprio perché è meno utilizzata (si tende a pensare che delle guardie donne siano per forza più empatiche degli uomini, non è così).

Stateless - MiniserieIl plus che rende la vita di Cam un vero inferno è la questione economica, alimentata dalla moglie che spinge l’uomo non solo a mantenere il lavoro, ma anche a denunciare Janice – cosa che manifesta chiaramente la visione unilaterale della moglie sulla questione migranti. Si può dire ad ogni modo che l’inizio del declino per Cam sia il momento in cui la sua denuncia non cambia minimamente lo status quo all’interno di Baxton; ed è interessante notare come in qualunque altra serie avremmo visto una effettiva inazione volontaria da parte dei capi del centro (che è poi quello che pensa Cam: non sono stati puniti perché si è preferito insabbiare la vicenda), mentre in questo caso la scelta di non licenziare le tre guardie è dovuta a una mera coincidenza, ossia la manifestazione prevista al di fuori del centro che porta Clare a dispiegare tutte le forze a sua disposizione.
Per Cam è però la conferma di quanto il sistema sia marcio, di quanto sia impossibile cambiare le cose dall’interno anche se si è personalmente disposti a un sacrificio: il mancato licenziamento, che porta il resto delle guardie a pensare che l’uomo non abbia detto la verità e che quindi sia ufficialmente “uno di loro”, alimenta il senso di affiliazione al gruppo, visto come una fedeltà alla causa che conduce Cam non solo a denunciare la sua stessa sorella, ma anche ad acquisire comportamenti che hanno inevitabilmente ricadute sulla sua vita privata. La terribile scena dell’aggressione ai figli rappresenta il culmine di un percorso che, in poche puntate ma in modo veritiero e coerente, trasforma Cam da essere umano con un alto livello di empatia a macchina senza emozioni. Sarà lo scontro con un migrante, che lo metterà davanti alla realtà della situazione (“But one day… your wife and your child, they will know. They will smell it and they will know what you really are”), a condurlo al punto di rottura e alla presa di coscienza che l’unico modo per tornare a essere se stesso sia andarsene da Baxton.

Stateless - MiniserieAmeer rappresenta l’angolo mancante della vicenda immigrazione, quello più importante: il protagonista, l’uomo che con la sua famiglia scappa dall’Afghanistan e viene truffato dal sistema criminale che si arricchisce alle spalle di persone come lui. Il suo percorso come migrante non è l’unico rappresentato nella serie, ma è quello che incarna al suo interno la maggior parte delle terribili caratteristiche della vita di un rifugiato: dalla citata truffa alla separazione dalla famiglia; dalla perdita della moglie e di una figlia alla disperazione che ne consegue una volta riunitosi con l’altra figlia, Mina; dall’impossibilità di provare la propria innocenza senza finire nei guai alla decisione di mentire per salvare se non altro la figlia e consentirle quel futuro che doveva essere per quattro e che invece potrà avere solo una persona. Non è un caso che la serie finisca proprio con lo sguardo di Mina al cielo, davanti a quel mare che ha visto la morte di sua madre e di sua sorella e che l’ha separata da suo padre: Mina è viva e avrà un futuro, chiunque vedrà questo in lei, ma difficilmente potrà immaginare a quanto ha dovuto rinunciare per poter vivere da persona libera.

Se c’è una critica che si può muovere alla gestione complessiva delle storyline, in particolare all’equilibrio tra quella di Sofie e quella di Ameer, è legata al livello di approfondimento del background dei personaggi. Per quanto i flashback di Sofie funzionino alla perfezione – capiamo tutti sin dall’inizio che Gordon ha abusato di lei, ma assistere alle scene solo nel momento in cui è lei stessa a prendere atto di quanto accaduto è senza dubbio una scelta di forte impatto –, sarebbe stato forse più funzionale averne meno su di lei e qualcuno su Ameer, la sua famiglia e la loro vita in Afghanistan. Delle motivazioni che li portano a fuggire abbiamo solo un resoconto di Ameer al centro immigrati, mentre forse sarebbe stato più appropriato avere una costruzione a tutto tondo del personaggio. È vero che Ameer è un personaggio inventato che riassume genericamente il destino di molte famiglie come la sua, ma d’altra parte anche Cam è una generalizzazione di cosa succede a una guardia che lavora in un centro simile, e lo stesso discorso vale per Clare: questo non ha impedito a Stateless di indagare sui loro personaggi, magari non affondando a piene mani dal passato ma almeno dal loro presente. Per Ameer il presente non rappresenta la sua quotidianità, la sua identità: sarebbe stato allora forse più appropriato dedicare un maggiore screentime a lui, Mina e la loro famiglia.

Stateless - MiniserieCiononostante, la miniserie può dirsi un prodotto riuscito: di più, non risulta “solo” uno show dal taglio a metà tra fiction e ricostruzione storica, ma assume un ruolo pienamente politico, rivendicato nelle scritte finali che chiudono l’ultimo episodio. A seguito dell’inchiesta partita dal caso Rau che richiedeva un’urgente riforma di tutto il Dipartimento Australiano di Immigrazione, le cose non sono andate come si sperava: dal 2012 tutti gli immigrati richiedenti asilo che arrivano via mare non vengono più tenuti in posti come Baxton, ma in centri che hanno sede su isole come Nauru e Manus in Papua Nuova Guinea, luoghi in cui l’accesso di media e avvocati è ancora più ristretto. La domanda, implicita ma evidente, è questa: se ciò che avete appena visto è quello che succedeva prima, ora che “il problema” è stato letteralmente isolato cosa starà accadendo?
È possibile voltare lo sguardo altrove quando nel mondo ci sono 70 milioni di persone alla ricerca di asilo, che scappano da guerre e persecuzioni, e di cui la metà sono bambini? Siamo abituati, nelle nostre vite di persone nate dalla parte giusta del mondo, a chiedere aiuto allo Stato se siamo in difficoltà: a chi dovrebbero chiedere aiuto 70 milioni di persone (35 milioni di bambini) che sono letteralmente senza stato?
Cate Blanchett si è fatta promotrice di questa domanda, creando un prodotto che grazie a nomi di spicco (e interpretazioni eccellenti: un plauso va anche a Dominic West, inquietante e terrificante nel suo ruolo) è riuscito a raccontare un tema nient’affatto semplice, che ha convinto prima ABC Australia e poi la stessa Netflix. Se mai qualcuno si è chiesto cosa diavolo ci faccia un’attrice all’ONU come ambasciatrice di una causa qualunque, in questo caso quella dei rifugiati, la risposta si trova tutta qui.

Voto: 8½

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Informazioni su Federica Barbera

La sua passione per le serie tv inizia quando, non ancora compiuti i 7 anni, guarda Twin Peaks e comincia a porsi le prime domande esistenziali: riuscirò mai a non avere paura di Bob, a non sentire più i brividi quando vedo il nanetto, a disinnamorarmi di Dale Cooper? A distanza di vent’anni, le risposte sono ancora No, No e No. Inizia a scrivere di serie tv quando si ritrova a commentare puntate di Lost tra un capitolo e l’altro della tesi e capisce che ormai è troppo tardi per rinsavire quando il duo Lindelof-Cuse vince a mani basse contro la squadra capitanata da Giuseppe Verdi e Luchino Visconti. Ama le serie complicate, i lunghi silenzi e tutto ciò che è capace di tirarle un metaforico pugno in pancia, ma prova un’insana attrazione per le serie trash, senza le quali non riesce più a vivere. La chiamano “recensora seriale” perché sì, è un nome fighissimo e l’ha inventato lei, ma anche “la giustificatrice pazza”, perché gli articoli devono presentarsi sempre bene e guai a voi se allineate tutto su un lato - come questo form costringe a fare. Si dice che non abbia più una vita sociale, ma il suo migliore amico Dexter Morgan, il suo amante Don Draper e i suoi colleghi di lavoro Walter White e Jesse Pinkman smentiscono categoricamente queste affermazioni.


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2 commenti su “Stateless – Miniserie

  • Michele

    Bella recensione Federica, ottimo lavoro!
    Stateless è un cazzotto nello stomaco, un prodotto del tipo di Sulla mia pelle, anche se meno pungente, per i motivi che sottolinei. Dato che è un’opera dalla forte valenza politica, ci sono un paio di aspetti che mi sono saltati all’occhio.
    Il primo è come il gioco di incentivi tra lo Stato australiano e l’azienda privata che gestisce il campo crei un equilibrio subottimale. In teoria, all’inizio, le cose sembrano giuste sulla carta, basta ricordare il training di Cam. Poi, però, arriva la realtà e vengono fuori ingiustizie e abusi, pur nel contesto di un centro non fatiscente.
    Il secondo è come il sistema, particolarmente lo Stato Australiano, reagisce quando viene allo scoperto qualche verità scomoda. Purtroppo la reazione è sistematicamente di pubbliche relazioni e mai diretta ad affrontare e risolvere in meglio il problema. Insomma, il sistema sceglie sempre di buttare la polvere sotto al tappeto e truccarsi a favore delle telecamere, senza mostrare troppo rispetto per le vite degli ospiti del centro.

    Stateless genera una grande simpatia per le vittime del sistema dell’immigrazione clandestina, cioè gli immigrati del centro. Ci fa vedere come, purtroppo, le loro vicende siano costellate di tragedie e trappole che li portano a fare scelte drammatiche. In questo sistema restano incagliati anche alcuni cittadini di serie A, perché perdono un po’ della loro umanità.

     
    • Federica Barbera L'autore dell'articolo

      Ciao Michele, grazie!!!
      Sono d’accordo con te, è evidente nel caso di Cam come sulla carta le cose siano strutturate per funzionare e come invece degenerino nel momento in cui, fatto il training, l’azienda in sostanza se ne lava le mani (non c’è follow up, non ci sono corsi di aggiornamento…) e quindi quel che succede succede. E allo stato va benissimo così.
      Sul secondo punto, purtroppo non è solo prerogativa dell’Australia, in linea generale più o meno ovunque quando si ha a che fare con le forze dell’ordine c’è sempre un tentativo di salvare la faccia prima di capire il problema e cercare di risolverlo, perché uno scandalo ha in potenza la forza di azzerare lo status quo, e soprattutto chi è ad alti livelli ci tiene a tenere la propria poltrona… Il fatto che per questo delle vite umane passino in secondo, terzo, ultimo piano, è raccapricciante.