La recente cancellazione, seguita dalle polemiche dell’attrice Zoë Kravitz (sul suo profilo Instagram) per la mancanza di volontà di far proseguire una delle poche serie con protagonista una donna nera da parte di Hulu, è l’occasione giusta per riflettere su High Fidelity, sulle ragioni del suo insuccesso e sul perché, a nostro avviso, avrebbe certamente meritato almeno una seconda stagione.
Il romanzo d’esordio del celebre autore britannico Nick Hornby aveva già ottenuto una trasposizione cinematografica nel 2000 a opera di Stephen Frears e con protagonista John Cusack, la quale presentava numerosi cambiamenti rispetto al libro, a partire dall’ambientazione, che veniva spostata da Londra a Chicago. Il nuovo adattamento, curato da Veronica West e Sarah Kucserka e prodotto, tra gli altri, da Kravitz e lo stesso Hornby, apporta ulteriori modifiche al prodotto originale, questa volta ambientato a Brooklyn. Innanzitutto viene rivoluzionato il casting, sostituendo i tre uomini bianchi eterosessuali protagonisti del film con un trio ben più variegato. Questa decisione, che è il cambiamento più evidente, risulta anche il maggiore punto di forza di questo nuovo adattamento, in quanto non si rivela soltanto una scelta rappresentativa e forzata, ma permette, nell’arco dei dieci episodi, di poter raccontare storie molto diverse tra loro, seppur collegate, dando alla serie una maggiore complessità e profondità. Se infatti le due ore del film logicamente impedivano di andare ad esplorare a fondo le identità dei due collaboratori di Rob, e quindi quasi tutto il focus era sul personaggio di Cusack, la nuova forma seriale di High Fidelity consente una buona caratterizzazione anche di Simon e Cherise.
Diverse personalità, dunque, ma soprattutto diversi modi di ascoltare e di vivere la musica, la quale resta in ogni caso la vera protagonista dello show. Se da una parte la trama della serie consiste nella piuttosto semplice storia della rottura di una relazione tra Rob e il suo ex ragazzo Mac, dall’altra è evidente come l’intenzione degli autori sia principalmente quella di raccontare la travagliata vita di una millennial newyorkese attraverso la musica, che funziona da incessante colonna sonora per tutto ciò che Rob fa. Lavorando in un negozio di vinili, Rob, Simon e Cherise vengono a confronto ogni giorno con tipi di clienti diversi, e da ciò scaturiscono tra loro accese discussioni su un particolare artista o genere musicale. Rob, poi, coinvolge lo spettatore nel dibattito rompendo molto spesso la quarta parete, come già faceva il protagonista del lungometraggio; l’approccio dei tre amici alla musica pare comunque essere in generale meno “snob” rispetto a quello dei protagonisti del film e più appassionato, più costruttivo nei confronti di coloro che ascoltano musica in modo più superficiale, sebbene non manchino le scene in cui Cherise (il corrispettivo del personaggio di Jack Black del film) se la prenda eccessivamente per le opinioni dei suoi colleghi. Le discussioni come detto sono molto diversificate, e spaziano dalle triviali classifiche sulle migliori canzoni d’amore di sempre alla diatriba riguardo le accuse rivolte a Michael Jackson, giusto per fare due esempi. Grazie a questa varietà chiunque può avvicinarsi alla serie senza temere che essa risulti troppo specifica a proposito del mondo musicale, ma è chiaro che per poter apprezzare pienamente High Fidelity è fondamentale avere perlomeno in mente i nomi degli artisti che vengono citati, altrimenti i dialoghi rischiano di perdere un po’ d’interesse, e forse è proprio questo uno dei motivi principali per cui la serie non ha riscontrato un successo maggiore: non proprio ascrivibile come un difetto, i tantissimi riferimenti alla cultura musicale hanno respinto una parte del pubblico generalista, contribuendo a rendere High Fidelity un prodotto più di nicchia. Già solo nel pilot si passa dai Fleetwood Mac a Lauryn Hill, fino ad artisti semisconosciuti come la cantante greca Lena Platonos. Ad aiutare lo spettatore a stare al passo con i discorsi di Rob e dei suoi amici ci pensa la colonna sonora, che gioca naturalmente un ruolo fondamentale all’interno del racconto: succede infatti spesso che un dialogo a proposito di una determinata canzone, a prima vista scaturito in modo spontaneo, acquisti un senso narrativo nel momento in cui la canzone viene riprodotta e il testo si ricollega agli eventi appena successi o a ciò che di cui i personaggi hanno parlato.
La musica, in High Fidelity, non viene però solo discussa e ascoltata, ma è anche il motore che manda avanti la trama dei vari episodi. Se il punto di partenza della narrazione è rappresentato dalla separazione tra Rob e Mac, è infatti attorno a concerti, visite a studi di registrazione e ricerche di vinili introvabili che si sviluppano i successivi episodi. In realtà quello con Mac è solo uno dei top five break ups of all time che, allo stesso modo che nel film, Rob descrive, ma la serie decide di non ampliare la spiegazione dei suoi altri quattro ex partner, inserendoli tutti nel primo episodio e concentrandosi poi su altri argomenti. Gli autori riescono così a dare abbastanza spazio anche a Simon e Cherise, ad esempio con la ricerca di quest’ultima di altri membri per formare la propria band; in questo senso sarebbe stato interessante assistere alle diverse evoluzioni dei personaggi in una seconda stagione che, molto probabilmente, non vedrà mai la luce.
High Fidelity è innanzitutto una serie per appassionati di musica a 360 gradi, che apprezzeranno i moltissimi riferimenti e le chicche proposte (come il cameo di Jack Antonoff); è una serie che sa giocare con le emozioni dello spettatore scegliendo sempre il brano giusto al momento giusto, ma è anche il racconto della maturazione di una giovane donna che deve superare la dolorosa fine di una relazione amorosa, facendosi aiutare dalle due cose più importanti della sua vita: i suoi amici e, naturalmente, i suoi vinili preferiti.
Questo articolo fa parte della rubrica estiva “Recuperi Seriali 2020“: durante il mese di agosto parleremo, con articoli senza spoiler, di alcune delle serie 2020 di cui non abbiamo avuto l’occasione di parlare e che secondo noi andrebbero assolutamente recuperate!