Social Distance – Per sentirsi meno soli durante la pandemia


Social Distance – Per sentirsi meno soli durante la pandemiaDurante la scorsa primavera chiunque guarda abitualmente film e serie televisive ha iniziato a guardare le cose in un altro modo, soprattutto per via di un senso di spiazzamento forte dato dalla pandemia e dalle condizioni eccezionali in cui siamo stati costretti a vivere. A colmare questa divergenza arriva Social Distance, serie originale Netflix interamente incentrata sul racconto di alcune facce del lockdown.

Una delle cose che hanno iniziato a notare quasi tutti guardando le serie televisive in questi mesi è quindi la distanza sempre più netta tra ciò che facciamo nella vita reale e ciò che fanno i personaggi sugli schermi, anche nei lavori più realistici. Perché i personaggi non hanno la mascherina? Perché non mantengono la distanza di sicurezza? Non hanno paura quando si abbracciano e si baciano due persone che non convivono?
Questa sensazione, scommettiamo estremamente condivisa, è la dimostrazione che questa pandemia ha cambiato qualcosa nel nostro modo di vedere i film e le serie TV e che certe cose non ci parlano più come prima anche perché mostrano un mondo pre-pandemia o senza pandemia che semplicemente non ci riguarda (e questo ci dice anche qualcosa del rischio che corre chi posticipa l’uscita dei film sulla base di calcoli economici senza pensare che tra un anno magari le sale saranno aperte ma i loro film vecchi e molto meno rilevanti).

Social Distance – Per sentirsi meno soli durante la pandemiaA riempire questa enorme voragine tra testi audiovisivi e spettatori arriva Social Distance, una serie originale Netflix che ha come oggetto del racconto proprio il lockdown e le diverse condizioni nelle quali questa situazione eccezionale (che dopo mesi e mesi lo è stata sempre meno) è stata vissuta negli Stati Uniti.
Si tratta di una serie antologica in otto episodi di circa una ventina di minuti ciascuno, che in ognuno dei suoi frammenti narrativi racconta uno spaccato di vita ambientato durante la quarantena, passando da persone differenti dal punto di vista anagrafico, dell’orientamento sessuale, di classe sociale e di background culturale.
Lo show è creato da Hilary Weisman Graham e da Jenji Kohan e racconta la pandemia in tante sue facce e forme, soffermandosi soprattutto sulle mutazioni della nostra condizione psicologica e durante le settimane in cui siamo stati chiusi in casa.

I film e le serie televisive sono modificati dallo scorrere del tempo e il modo in cui li guardiamo in un determinato periodo storico è diverso da quello in cui li guardiamo in un altro; è così oggi e così è stato da sempre. Alla luce di ciò non sappiamo cosa penseremo tra dieci anni di Social Distance, se sarà una serie invecchiata malissimo o un oggetto narrativo dal fondamentale carattere documentale. Tuttavia, sappiamo per certo una cosa: concentrandoci sul qui e ora, Social Distance è il prodotto giusto al momento giusto, una serie televisiva in grado di narrare al pubblico di tutto il mondo un’esperienza che quest’ultimo ha vissuto in prima persona e che gli ha, sotto tanti punti di vista, cambiato la vita e la percezione della realtà.
Social Distance – Per sentirsi meno soli durante la pandemiaAl centro del racconto, nonostante la varietà delle storie e la diversità dei punti di vista adottati, ci sono alcune limitazioni che hanno accomunato le persone in ogni parte del globo, dallo stare chiusi in casa e non potere accedere più a quei servizi che fino a poco prima costituivano parte dell’agire quotidiano, come ad esempio gli spostamenti urbani sui mezzi pubblici o la frequentazione dei centri ricreativi. Questo lavoro Social Distance lo fa con una sensibilità particolarmente acuta, cercando di entrare nelle maglie delle singole condizioni personali, sganciandosi così dalla retorica del “siamo tutti sulla stessa barca”, ma andando a mettere in evidenza in maniera pratica e diretta le ragioni per cui un’emergenza del genere allarga ancora di più la forbice tra le persone che hanno più privilegi e quelle che invece ne hanno meno.

Senza entrare troppo nel merito dei singoli episodi diciamo solo che da un tassello narrativo all’altro la serie racconta le diverse sfumature della sensazione di impotenza generata dalla quarantena, il sentirsi in gabbia a casa propria per via del distanziamento sociale e quindi anche le relative conseguenze di natura psicologica che montano quando il tuo spazio vitale, la cosa che spesso hai costruito affinché ti somigli, diventa anche la tua prigione.
Il lavoro è l’altro territorio che non può che essere inevitabilmente influenzato dalle restrizioni della pandemia, non solo a livello logistico ma anche proprio nelle modalità con cui viene portato avanti. A questo proposito la serie racconta la nuova pervasività che la tecnologia ha assunto negli ultimi mesi, diventando un elemento di mediazione a volte indispensabile, lo smart working, e quindi a tutti gli effetti anche una grande opportunità di alfabetizzazione digitale per tante persone ma anche una cartina di tornasole delle disparità sociali, culturali ed economiche.

Social Distance – Per sentirsi meno soli durante la pandemiaIl fatto che questa serie arrivi da Jenji Kohan non deve sorprenderci perché negli ultimi dieci anni l’autrice ha dimostrato da saper dare una svolta importante alla serialità televisiva, aprendo varchi enormi all’interno del nostro immaginario grazie a show che si sono rivelati totalmente groundbreaking. Quello che in questi dieci anni ha fatto Orange Is the New Black, ad esempio, ha avuto un’importanza capitale, perché in un momento in cui le donne erano molto meno rappresentate di quanto lo siano oggi (comunque troppo poco) ha costruito uno show in cui decine di personaggi femminili interagiscono tra loro esibendo in maniera gioiosa e al contempo stratificata tutta la loro diversità.
La legacy della serie carceraria targata Netflix è sotto gli occhi di chiunque e con Social Distance Kohan ha provato nuovamente a lasciare una traccia, costruendo uno show in grado di far sentire il pubblico capito e rappresentato in un momento in cui il rapporto di identificazione tra le narrazioni audiovisive e gli spettatori sta subendo uno scollamento sempre più deciso.

Non è facile guardare Social Distance, perché non è certo il modo per evadere dalla pandemia, ma al contempo è anche confortante perché ci si sente meno soli, perché vi si possono trovare all’interno tutte quelle cose che abbiamo vissuto in questi mesi, dalle chat di whatsapp con le famiglie allargate alle fake news in cui tutti cascano, dalle emergenze nelle strutture ospedaliere ai disagi vissuti dalle coppie a distanza.

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Informazioni su Attilio Palmieri

Di nascita (e fede) partenopea, si diploma nel 2007 con una tesina su Ecce Bombo e l'incomunicabilità, senza però alcun riferimento ad Alvaro Rissa. Alla fine dello stesso anno, sull'onda di una fervida passione per il cinema e una cronica cinefilia, si trasferisce a Torino per studiare al DAMS. La New Hollywood prima e la serialità americana poi caratterizzano la laurea triennale e magistrale. Attualmente dottorando all'Università di Bologna, cerca di far diventare un lavoro la sua dipendenza incurabile dalle serie televisive, soprattutto americane e britanniche. Pensa che, oggetti mediali a parte, il tè, il whisky e il Napoli siano le "cose per cui vale la pena vivere".

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