Nel percorso alterno della serie di Malcolm Spellman si può notare una certa confusione: nonostante la brevità della miniserie – sei episodi – infatti l’impressione comune è che si sia cercato di comprimere all’interno del dispositivo narrativo troppe diverse questioni che ruotano intorno alla figura controversa, ambigua e ricca di spunti di riflessione che risponde al nome di Captain America. Cos’è un simbolo? Come può essere plasmato e costruito dal potere politico? Quali implicazioni ha sulle persone “comuni”? Che caratteristiche deve avere?
Tutte domande alle quali la serie ha cercato di dare risposta attraverso la scelta di mettere in primo piano la legacy di Steve Rogers e diversi personaggi – molto diversi tra loro per background e personalità – a contendersela, con tutte le implicazioni del caso. Da un lato c’è Sam Wilson, colui al quale lo stesso Steve aveva consegnato lo scudo e che sembrava essere la scelta più giusta, il quale tuttavia rifiuta questo onore perché non si sente rappresentativo di un paese che continua sistematicamente ad opprimere le persone come lui – tematica rinforzata dalla storia di Isaiah Bradley e della sua storia di sfruttamento. Anche Bucky Barnes è in questo speciale elenco: da spalla fedele di Steve durante gli anni della guerra a sicario implacabile sotto il controllo mentale dell’HYDRA, il suo percorso è quello di ricostruzione della propria identità a fronte di un passato, anche per lui, di sfruttamento e manipolazione; e anche per lui l’ipotesi di prendere lo scudo è concreta ma ostacolata dal suo senso di colpa. E poi c’è John Walker, il Captain America che vogliono le istituzioni; un soldato ubbidiente, pronto a fare “la cosa giusta” – con accezione relativa – per proteggere gli interessi del proprio paese che, guarda caso, è un maschio bianco intriso di nazionalismo e necessità di dimostrare di essere il migliore.
Questo triangolo di personaggi si affronta nelle primissime scene di “Truth” dopo il cliffhanger migliore della miniserie finora: quello scudo a stelle e strisce insanguinato che è chiaramente lo svelamento di una maschera che nella geopolitica del ventesimo secolo gli Stati Uniti hanno sempre indossato quando si sono trovati ad operare in territori stranieri. Gli interventi militari per “esportare la democrazia” che il blocco occidentale ha da sempre rivestito di una fortissima carica ideologica mirata a costruire degli ossimori veri e propri come per esempio “guerra di pace” sono rappresentati con una sintesi estrema dalla serie di Disney+. Il sangue che scorre sulle mani di John Walker è il sangue che scorre dalla bandiera del paese che rappresenta: l’omicidio brutale in diretta mondiale del membro dei Flag Smashers è un vero e proprio omicidio di Stato non necessario e ingiustificato, che certifica la totale inadeguatezza del soldato a raccogliere l’eredità di Steve. Nel processo che segue il suo arresto John si giustifica proclamandosi vero braccio esecutore degli ordini che gli sono stati impartiti, certificando la sensazione che già si aveva: questo Captain America è quello che il governo ha deliberatamente creato e l’episodio che lo ha visto protagonista non è stato altro che la normale conseguenza della loro scelta miope.
Il penultimo episodio della miniserie – il più lungo finora – lascia tutta l’azione ai primi minuti, sviluppando poi la sua trama con una distensione narrativa volta ad approfondire le conseguenze sui protagonisti. Sam è finalmente pronto a imbracciare lo scudo, nonostante il monito di Isaiah Bradley e il suo racconto sconvolgente: il governo ha infatti innalzato Steve Rogers come proprio simbolo e nascosto sotto il tappeto quello che poteva essere il loro Captain America nero, così come ha fatto con tutta la popolazione afroamericana nel corso del ventesimo secolo. Come può un uomo nero consapevole di tutto questo indossare il simbolo di una nazione che non ha fatto altro che banchettare sulla pelle della sua gente per secoli? È una delle domande alle quali lo show dovrà dare una risposta convincente nell’ultimo episodio perché per ora non si comprendono ancora alla perfezione le motivazioni di Sam che, nel frattempo, ha cominciato ad allenarsi con lo scudo. Sarà che Sam vuole essere un Captain America per il futuro del suo paese, a costo di dimenticare tutto quello che è avvenuto prima? O forse vuole esserlo solo per le persone che hanno più bisogno e non agli ordini di un governo che si dimentica e discrimina i più deboli?
In questo senso fa piacere vedere come venga esplorato l’evoluzione del rapporto tra Sam e Bucky nell’ottica dello sviluppo dei due personaggi: considerato il background narrativo che accomunava gli eroi sin dai tempi di Captain America: The Winter Soldier non era scontato che la sceneggiatura riuscisse a dominare la chimica tra i due, così diversi e distanti ma allo stesso tempo così bisognosi di un compagno e un amico leale al loro fianco. La solitudine che li accomunava li ha fatti avvicinare e li ha portati a fidarsi l’un l’altro e a comprendere le ragioni che hanno sorretto le scelte che hanno fatto: da un lato Sam capisce il motivo dell’astio di Bucky quando ha rifiutato lo scudo, dall’altro l’ex Soldato d’Inverno conosce il contesto in cui è vissuto e cresciuto Sam e questo gli fa capire molte cose. In tutto ciò rientra bene il concetto di “famiglia”, più volte esplicitato dai protagonisti e centrale nelle vite dei due personaggi, seppur in modo diverso.
La Fase 4 del MCU sembra caratterizzata da una pianificazione ancora più a lungo termine e disseminata di indizi sul futuro delle pellicole e delle serie che vedremo intrecciarsi tra loro. In questo episodio per esempio è abbastanza chiaro il ruolo puramente strumentale di Zemo, che viene allontanato convenientemente dallo show e portato in Wakanda dalle Dora Milaje pronto a tornare come villain di qualche prodotto futuro, e del cameo della contessa Valentina Allegra de Fontaine interpretata da Julia Louis-Dreyfus (Seinfeld, Veep), anche lei villain che si rivelerà presumibilmente importante nel futuro delle produzioni Marvel – qualcuno ipotizza in una storia legata a Nick Fury visto il loro legame nei fumetti.
Il quinto episodio di The Falcon and The Winter Soldier prepara il terreno per la puntata finale optando per una soluzione anticlimatica che cerca di rimettere a posto tutti i pezzi del puzzle, finora abbastanza indecifrabili e confusionari. Riesce quantomeno nell’intento di ritrovare una traballante via unitaria nel suo discorso, sebbene permangano ancora dei difetti e delle scelte opinabili – i ruoli secondari e strumentali nei quali hanno relegato Karli e i Flag Smasher, Zemo e Sharon Carter, le scelte plot-driven dei protagonisti a volte senza coerenza interna – e, nonostante si possa intuire cosa accadrà nell’ultimo atto dello show, lascia la voglia di proseguire la visione e rivedere il tutto alla luce di alcuni temi interessanti portati a galla dalla serie.
Voto: 7