Dal 15 aprile su Apple TV+ è disponibile Roar, una serie antologica composta da otto episodi, tratta dall’omonima raccolta di racconti brevi scritta da Cecelia Ahern e pubblicata nel 2018.
Al timone del progetto troviamo Liz Flahive e Carly Mensch, creatrici dell’amatissima GLOW, mentre il cast può vantare attrici del calibro di Nicole Kidman, Merritt Wever, Alison Brie, Issa Rae e Betty Gilpin, solo per fare alcuni nomi.
La premessa che tiene insieme questi otto racconti è tanto semplice quanto accattivante: il filo rosso è infatti rappresentato dall’esperienza femminile, in particolare il modo in cui le donne reagiscono alle più disparate sfide e avversità, ma pur sempre in qualche modo legate alla dimensione di genere. Non a caso la serie è stata definita come una raccolta di fiabe femministe, caratterizzate da un umorismo dark e da diverse incursioni nel realismo magico.
A prescindere dal materiale di partenza, la scelta del formato della serie antologica porta sempre con sé un discreto margine di rischio: condensare un’efficace presentazione dei personaggi con un concept convincente e un finale in grado di rendere giustizia alle premesse non è per niente facile, a maggior ragione se si hanno a disposizione solo trenta minuti per episodio. Ed è proprio da questa difficoltà di fondo che sembrano originare i principali difetti dello show, con risultati a dir poco altalenanti dal punto di vista della riuscita dei singoli episodi e, di conseguenza, del progetto nel suo insieme.
Ma andiamo con ordine: la costruzione delle protagoniste è genericamente buona, innanzitutto per merito della scrittura che, nonostante il breve minutaggio, si prende tutto il tempo necessario per farcele conoscere a fondo, ma anche grazie alle ottime performance del già citato cast. Si tratta di donne molto diverse tra loro per età, background culturale, sogni e aspirazioni, ma con le quali è facile empatizzare mentre le osserviamo alle prese con le varie metafore del sessismo con cui si trovano a dover fare i conti.
Dal punto di vista visivo, il meccanismo messo in opera dal Ahern si presta molto bene alla trasposizione sullo schermo: nella maggior parte dei casi si tratta infatti di un’operazione di trasformazione del piano metaforico in piano letterale, tangibile, dando vita a un immaginario peculiare fatto di donne invisibili, che vivono su uno scaffale e mangiano fotografie. Non sempre però questa premessa riesce a dar vita a racconti davvero convincenti, spesso proprio a causa dell’incapacità di superare il didascalismo e l’elemento “magico” da cui prendono le mosse, complice anche il ridotto minutaggio a cui si accennava poco sopra.
È questo ad esempio il caso di “The Woman Who Disappeared” e “The Woman Who Was Kept on a Shelf”. Nel primo episodio, la storia dell’autrice di successo (Issa Rae), la cui voce viene silenziata dagli executive di Hollywood che vogliono appropriarsi del suo vissuto, si interrompe sul più bello, lasciando allo spettatore il compito di immaginare una conclusione soddisfacente per il suo percorso di empowerment; nel secondo la riflessione sul concetto di trophy wife, anche in questo caso sostenuta quasi interamente dall’ottima performance di Betty Gilpin, si conclude in maniera agrodolce, con una possibile critica alla figura della girlboss e alla cultura dell’immagine che non riceve abbastanza spazio per colpire davvero nel segno.
In altri episodi l’impressione è che, a fronte di racconti nel complesso abbastanza riusciti, l’elemento “magico” sia quasi del tutto superfluo e irrilevante per lo svolgimento della storia: in “The Woman Who Ate Photographs” il percorso di ricongiungimento della protagonista (Nicole Kidman) con la madre malata di Alzheimer e l’accettazione di essere ormai l’unica depositaria dei ricordi della sua famiglia avrebbe funzionato altrettanto bene senza le sequenze, seppur visivamente gradevoli, in cui la donna ingerisce alcune fotografie per rivivere il momento che vi è immortalato; allo stesso modo in “The Woman Who Returned Her Husband” la trasformazione del divorzio nella restituzione al negozio del marito è divertente ma non abbastanza incisiva per caratterizzare in maniera originale una classica storia sulla separazione e la scoperta di se stessi.
In quest’ottica, “The Woman Who Found Bite Marks on Her Skin” si pone come uno dei capitoli più compiuti: in questo caso, infatti, la metafora della madre/donna in carriera (Cynthia Erivo) mangiata viva dal senso di colpa si fonde in maniera più organica con la storia, grazie anche all’atmosfera horror che permea l’episodio.
Il capitolo più riuscito è però senza dubbio “The Woman Who Solved Her Own Murder”, ed è significativo il fatto che lo sia proprio perché basato su un meccanismo diverso da quello appena discusso. Non siamo infatti di fronte a una vera e propria metafora incarnata, bensì a una premessa molto familiare: la protagonista (Alison Brie), dopo la sua morte, si trova ad assistere alle indagini relative al suo omicidio, finendo col risolverlo lei stessa. Il riferimento a Ghost, citato nei primi minuti dell’episodio, è però solo il punto di partenza per una satira del topos della dead girl e delle storie di detective tormentati a cui la tv ci ha abituato, in cui la critica allo sguardo maschiocentrico di questo tipo di racconto si amalgama molto bene con l’approfondimento del personaggio della vittima, in una sorta di percorso di formazione post mortem a tratti divertente e a tratti malinconico.
Mancano all’appello i due capitoli più strani dello show: “The Woman Who Was Fed By a Duck”, il racconto di una storia abusiva e di gaslighting con protagonisti Merritt Wever e…un’anatra (forse un rimando al duck test), in cui l’effetto cringe finisce col prendere il sopravvento su tutti gli altri aspetti del racconto, e “The Girl Who Loved Horses”, in cui l’ambientazione western e la totale assenza di elementi “magici” fanno sembrare questa tenera storia di amicizia tra due adolescenti un corpo estraneo all’interno della serie.
Nel complesso quindi, e spiace dirlo, Roar, nonostante la bravura del cast e il talento delle autrici, non può definirsi un esperimento riuscito. Per quanto le tematiche affrontate siano di capitale importanza e di enorme attualità, raramente questi racconti riescono a superare la dimensione favolistica in cui volutamente si inseriscono, fallendo così nel tentativo di dar vita a una messa in scena davvero originale e pregnante dei temi prescelti.
Voto: 6