Nata dall’attore e regista Andrea di Stefano e uscita il 28 aprile, Bang Bang Baby aveva tutte le premesse per essere la serie in grado di dare un po’ di lustro al tanto monotono e sempre più trascurato mondo della serialità italiana. Tanto per cominciare non è una fiction in stile Occhi del Cuore (e questo è ormai il minimo indispensabile), ed è ambientata in Italia (ma Italia Italia, non quell’Arcadia soleggiata dipinta dai film americani – quella con pizza fatta in casa, spiagge e persone che vanno in bicicletta per le campagne toscane, per intenderci), ma ha comunque un respiro internazionale, in grado di renderla appetibile a chiunque nel mondo abbia un profilo Amazon Prime. Il tutto è condito con ambientazione anni ’80, che tanto ci piace ultimamente, e il genere crime che ha spopolato con le varie Casa de Papel e Peaky Blinders, alle quali possiamo aggiungere le nostrane Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra.
Tutto faceva sperare per il meglio. Ma quindi, cosa è andato storto?
La prima (e per ora unica) stagione di Bang Bang Baby è uscita in due parti da 5 episodi ciascuna, e la visione delle prime puntate è un po’ come mangiare una galletta di riso per la prima volta: non ci vuole molto ad accorgersi che non sa di niente. La narrazione è lenta e prevedibile – tanto da poter anticipare diverse scene e battute – e l’episodio pilota ha lo strano potere di dire troppo e troppo poco allo stesso tempo. Come? È fin troppo facile intuire che Alice (Arianna Becheroni), una volta incontrato il padre e ascoltata la sua richiesta, la accetterà ed entrerà nel giro di criminalità della famiglia; e poi, una volta capito questo, viene da chiedersi cos’altro potrà mai succedere nelle prossime puntate di sorprendente. Lei entrerà nella ‘Ndrangheta e farà le solite cose che fanno i criminali nelle serie TV: nulla, a fine episodio, fa intravedere qualcosa di diverso. Poi ci sono i monologhi fuori campo della protagonista, recitati con voce piatta e condite da analogie banali che rallentano il ritmo della narrazione senza aggiungere nulla alle immagini.
A proposito di analogie, l’ambientazione anni ’80 è già abbastanza percepibile dalla colonna sonora, i vestiti e la fotografia derivativa con tanto di neon e variopinte luci soffuse; sono quindi necessari i continui riferimenti a serie TV e cartoni animati dell’epoca, che buona parte del pubblico nemmeno ha mai visto? Questione di gusti, ci mancherebbe, ma questa componente amarcord (anch’essa spesso banale) rischia di annoiare e impedire a chi guarda di immergersi appieno nella vicenda. A tutto questo bisogna aggiungere che, per come ci vengono presentati, è difficile provare alcun tipo di empatia per i personaggi principali, a partire da Santo Barone (Adriano Giannini) e lo stereotipo del bugiardo irresponsabile che, per qualche motivo, fa girare la testa alle donne; passando per la protagonista, la cui interprete sembra avere in repertorio due sole espressioni – imbronciata e imbronciata-con-lacrime – impoverendo quello che sarebbe potuto essere un personaggio profondo e complesso; e continuando con Jimbo (Pietro Paschini), l’amico omosessuale di Alice che va a scuola con tanto di trucco e smalto. Viene difficile pensare che un sedicenne negli anni ’80 avesse questa libertà tutt’oggi troppo in discussione, e a stridere ancora di più è il fatto che il personaggio è la macchietta del ragazzo gay che speravamo non fosse più necessaria nelle opere di finzione.
Poi c’è anche Giuseppina (Denise Capezza) e il suo personaggio dal potenziale decisamente poco sfruttato, tanto che la scena del suo suicidio lascia sostanzialmente indifferenti anziché rivelarsi uno dei colpi di scena del finale di metà stagione.
Oltre a buona parte dei personaggi, è infatti la piattezza e l’insensatezza di alcune storie secondarie a rovinare quello che sarebbe potuto essere un ottimo prodotto seriale. Ad esempio, la tresca tra Alice e il compagno di classe-bulletto Rossano (Enea Barozzi) ha tutte le caratteristiche archetipiche della storia tra due frenemies che entrano in intimità dopo un’avventura passata insieme. Ma tutto succede così velocemente, e in maniera così poco spontanea, che viene da chiedersi se fosse davvero necessario. Meno male che Alice ha poi preferito Rocco (Giuseppe De Domenico) e il suo fascino alla Heath Ledger mediterraneo.
Che sia la regia, o la recitazione (molto probabilmente entrambe), alcuni dialoghi tra i personaggi sanno tanto di recita scolastica, e alcune scene inverosimili fanno storcere il naso proprio quando la trama sta prendendo una piega intrigante (Cleopatra, interpretata da Carlotta Antonelli, se la porta sempre dietro la collana di Santo per averla lì pronta come prova per i Ferraù?). Se a questo si aggiungono alcune frasi “ad effetto” degne di un dozzinale film western, e termini in inglese buttati qua e là a casaccio come cool, easy peasy (yikes, n.d.r.), ci si mette un attimo per togliere gli occhi dallo schermo e alzarli al cielo.
Ma in fin dei conti queste sono tutte inezie, se si considera che è lo stesso movente della protagonista a risultare debole. Per come viene venduta, infatti, la rottura dell’equilibrio della trama dovrebbe consistere nel punto di non ritorno di Alice, ormai così immischiata nei loschi affari di famiglia da non poter più tornare indietro. Eppure le occasioni per uscirne continuano a presentarsi: sono gli stessi personaggi a capo della famiglia a intimarle di starne fuori (e Alice stessa dice di non volerne più sapere nulla diverse volte), ma lei persiste. Sarà per il gusto del crimine che la pervade, il desiderio di avere finalmente un padre, comunque egli sia, o semplicemente il fatto di non volerlo vedere morto o ancora tutte queste cose insieme: ma, episodio dopo episodio, nessuno di questi moventi riesce a rendere i rapporti di causa-effetto davvero convincenti.
L’uscita della serie era inizialmente passata in sordina, ma è stata poi promossa in tutto il mondo ricevendo consensi e un sempre maggior numero di spettatori; questo non può essere solo dovuto al fascino che il mafioso italiano emana nell’immaginario collettivo straniero. Ci sarà quindi qualcosa per cui vale la pena smettere d’intingere la penna nel fiele e iniziare a decantare qualche aspetto di Bang Bang Baby, ed effettivamente c’è.
Innanzitutto il personaggio di Donna Lina magistralmente interpretato da Dora Romano (L’amica Geniale, È stata la mano di Dio), col suo impeccabile accento calabrese e la disinvoltura con cui si destreggia tra l’essere una tipica nonna del sud e una boss criminale senza scrupoli. Poi ci sono i cugini Assunta e Nereo Ferraù (Giorgia Arena e Antonio Gerardi), che sono forse gli unici personaggi secondari la cui storia è degna di interesse – il secondo in particolare, che tra scatti di rabbia e imitazioni di George Michael porta a chiedersi, per buona parte della stagione, dove gli sceneggiatori volessero andare a parare, salvo poi far quadrare tutto negli episodi finali in cui viene squadernata la complessità di un personaggio che all’apparenza sembra solo fuori di testa a livelli tragicomici.
C’è poi da riconoscere il merito di aver creato una serie che, tra alti e bassi, vuole differire da quanto prodotto finora nella Penisola e fare da apripista a una nuova scuola della serialità all’italiana, prendendo quanto fatto di buono (o di vendibile) negli ultimi anni e apponendoci il marchio Made in Italy, magari anche aggiungendoci una linea comica non sempre riuscitissima, ma di cui è apprezzabile lo sforzo. E infine, gli ultimi episodi regalano un atteso susseguirsi di eventi dinamico e avvincente, che culmina nel finale a sorpresa in cui si scopre che Alice non aveva mai avuto intenzione di uccidere suo padre, e quest’ultimo lo si vede uscire dal baule della macchina vivo e vegeto.
Ma come, dopo tanti cliché ci si stupisce per il classico dei classici: il personaggio morto ma che non è davvero morto? Sì, e indipendentemente dal fatto che questo sia dovuto alla prevedibilità a cui ci si abitua negli episodi precedenti, o all’incalzare delle scene finali, Bang Bang Baby ha il merito di prendersi questa piccola rivincita al termine di una stagione che, in conclusione, si rivela deludente per una trama raccontata sommariamente e interrotta troppo spesso da scene inutili allo sviluppo della stessa. A questo vanno aggiunti personaggi dalle caratteristiche solo accennate – la cui interpretazione lascia spesso a desiderare – e che, vista l’ufficiosità riguardo una seconda stagione, lasciano un vuoto ormai difficilmente colmabile.
Voto: 5½