Pachinko – Dalla parola scritta al medium televisivo


Pachinko - Dalla parola scritta al medium televisivoPachinko, una delle novità più entusiasmanti e di prestigio del panorama seriale dell’anno 2022, prende vita a partire dal romanzo omonimo, edito in Italia da Piemme con il titolo “La Moglie Coreana”. Ma cosa cambia, rispetto alla parola scritta e al materiale di partenza, e cosa riesce ad emergere sullo schermo? Cosa distingue il prodotto di casa AppleTv+ da tutti gli altri, fino a rendere la serie così convincente – sia come primo capitolo di una storia dall’ampio respiro, sia come stagione a sé stante?

Mastodontica, monumentale, semplicemente una gioia per gli occhi e per lo spettatore; sono tanti gli aggettivi e le lodi che possiamo utilizzare per parlare di un prodotto come questo. Pachinko non è una serie facile da seguire, soprattutto se paragonata ai prodotti che sempre più spesso affollano gli scaffali virtuali dei più popolari servizi streaming; eppure ha una sceneggiatura così sapientemente equilibrata da rendere ogni interazione convincente e persuasiva. È impossibile staccare gli occhi dallo schermo e, lungo il suo cammino di otto episodi, assistiamo al disvelarsi di una storia dal respiro ampio, che avvolge lo spettatore con una qualità di scrittura e di girato – corredata da performance impeccabili – tali da far dimenticare che esista anche altro.

ATTENZIONE: il seguente approfondimento è dedicato alle persone che hanno visto la prima stagione della serie.
Si farà dunque riferimento a scene che poterebbero essere considerate spoiler.

Pachinko come saga familiare
“A child is coming. She will thrive. And through her, a family will endure.”

Pachinko - Dalla parola scritta al medium televisivoLa serie TV si prende molte libertà rispetto alla controparte cartacea, ed è una scelta che fin da subito risulta positiva. In particolare, gli sceneggiatori decidono di non seguire pedissequamente la narrazione cronologica del romanzo e propendono invece per un approccio più rischioso (soprattutto in un panorama seriale che sempre più spesso propone racconti dal canovaccio identico), decidendo di raccontare questa saga familiare con un ritmo sostenuto, che si muove su due linee temporali. È un rischio che si dimostra vincente fin dal pilot: non c’è un fotogramma o un’inquadratura che risulti mai fuori posto o superflua, ogni aggiunta e dettaglio ha la sua perfetta collocazione, ogni taglio e rimaneggiamento assume un senso tale da rendere la serie TV, in questa sua prima stagione, anche più riuscita rispetto al materiale di partenza. In un prodotto che ha già un punto di riferimento così ricco, i dettagli della trasposizione rendono il narrato ancor più incisivo: basti pensare al ricorrere di gesti e immagini che da un episodio si trasportano fino all’altro, creando un filo conduttore che accompagna dolcemente lo spettatore nella visione. Un esempio fra tanti è quello che lega due personaggi all’apparenza lontani: le camicie che, secondo le donne del villaggio, Kon Hansu getta via dopo un solo utilizzo, sono le stesse che Solomon – inconsciamente, figlio del suo tempo – getta nella pattumiera.

Proprio a partire dal personaggio di Solomon, riusciamo a comprendere la portata della cura e dell’attenzione che il team di sceneggiatori ha mostrato nei confronti del materiale. È proprio nel confronto tra Solomon e la signora Han (l’anziana coreana protagonista della sua stessa rivoluzione copernicana) che si rispecchia l’intera architettura della serie; è opportuno notare come si tratti, anche in questo caso, di un’esplorazione dettagliata di un rivolgimento di trama che nel libro occupa poche pagine. Solomon, forte della sua posizione, emblema di una generazione che ha portato un grande peso sulle spalle – quello della cultura e del merito, che fa diventare qualcuno –, si scontra in modi diversi con i simboli del suo passato, sotto forma della donna coreana decisa a non vendere la sua casa, e sotto forma del fantasma per eccellenza (la figlia della compagna del padre, Hana). Nel primo contatto con la signora, quello in cui Solomon è ancora il personaggio granitico che pensa di essere, lo scambio si perpetua tramite un dono anacronistico: l’anguria (da sempre, nella cultura giapponese, sinonimo di prosperità), il pacchetto che dovrebbe far capitolare la venditrice ed il suo orgoglio; infine, l’offerta monetaria a cui nessuno può resistere.

Pachinko - Dalla parola scritta al medium televisivoPachinko offre una serie di riflessioni sfruttando una storia minuscola e costruendo su di essa la chiave di lettura di tutto ciò che viene mostrato; il valore dei soldi – merce di scambio che nell’epoca di Solomon è “semplicemente” in costante aumento –, rispetto al valore che questi avevano per chi aveva vissuto nella povertà e nel disprezzo del paese che li aveva accolti (da ripudiati). Nel confronto tra la signora Han e Solomon si misura il confronto tra le generazioni che percorrono la narrazione: senza saperlo, Solomon sta parlando con un’altra versione della nonna. È emblematico che sia una Sunja adulta a chiedergli se si possa salvare l’affare senza per forza doverle arrecare danno: un passaggio in cui si sintetizza tutta l’essenza di un personaggio incredibilmente complesso, che da solo potrebbe reggere una serie intera – ma che non ha bisogno di farlo, data la forza dei comprimari. Nel confronto tra le due anziane si dipana non solo un’epifania potentissima, che sfocia nelle lacrime silenziose di Sunja, e nella rabbia a stento trattenuta della signora Han nei confronti della nuova generazione che rifiuta di ricordare i torti subiti, ma anche e soprattutto il punto focale che centra su di sé l’intero impianto produttivo della serie: il linguaggio.

Che ruolo riveste il linguaggio in Pachinko?
And now my own kids don’t even know the language in which their mother dreams.”

Pachinko - Dalla parola scritta al medium televisivoIn una serie che si regge su incastri preziosi e così ben studiati, il lavoro svolto sul tema del linguaggio è uno dei più precisi cui si possa auspicare, sia nel modo in cui la serie è girata, sia nell’avvertimento che AppleTv+ pone ad inizio di episodio (che spiega i colori dei sottotitoli, facendo capire quando nel parlato giapponese emergano, ad esempio, dei termini coreani*), sia nella centralità del messaggio che si imprime alla perfezione nei primi episodi, e che trova collocamento e risoluzione nel quarto episodio. “Chapter Four” funge da spartiacque per l’intera annata, e contribuisce a rendere Pachinko un prodotto indimenticabile: il montaggio finale che unisce il percorso di Solomon a quello della nonna paterna, passando attraverso la conoscenza della Signora Han, è il segno più evidente di una scrittura che si fonda su un quadro d’insieme dettagliato e articolato.
Fin da subito sappiamo che la serie è girata in due lingue: il coreano degli oppressi, il giapponese degli oppressori – l’inglese, poi, della novità che avanza (il visto di Solomon, sponsorizzato dalla sua banca). Che differenza può fare quella di una lingua diversa nel luogo in cui dovresti prosperare e vivere l’unica vita che ti è concessa? È una differenza abissale, tramite la quale la serie collega tutte le storyline – anche quelle a cui fa solo un tiepido accenno – e lo fa donando al personaggio di Sunja (grazie anche alla bravura delle tre attrici che la interpretano come anziana, bambina e adulta) il ruolo di portatrice di un messaggio universale: una lingua, una forza, una figlia che creerà da sola una dinastia. La signora Han sogna nel coreano dei suoi avi, e non vuole, a nessun costo, vendere quel pezzo di terra che le ricorda i sacrifici della sua vita, lo sprezzo letto nel popolo che la voleva umiliata e sporca; che, rigettandola, rigettava la sua lingua e le sue origini. Nell’importanza che la serie dà alla lingua c’è il messaggio della storia stessa: delle diversità di ogni cultura, della dignità che ogni declinazione porta con sé, della storia che non è mai solo concepibile come quella di oppressi e oppressori, ma che dovrebbe essere riletta da ogni punto di vista. Pachinko è un prodotto che parla del valore della Storia e lo fa attraverso dei personaggi destinati a diventare indimenticabili.

Pachinko - Dalla parola scritta al medium televisivoSunja è fin da subito la vera protagonista della Storia, non solo quella singolare ma anche quella collettiva: attraverso le sue scelte di giovane ragazza prima, e di madre poi, si dipana l’intera narrazione. In un fil rouge  che collega la nonna al nipote, la vita di Sunja viene raccontata nella sua forza straordinaria, tanto negli errori quanto nella sua incrollabile tenacia. La ragazza cresce in un solo istante e diventa la Sunja capo famiglia che conosciamo a partire dal pilot. Di rado un personaggio è stato così sapientemente scritto da risultare lineare in ben tre finestre narrative diverse; al punto tale che, assistendo alle due Sunja che operano su piani temporali così diversi, salta subito all’occhio come si tratti di un personaggio tridimensionale e quasi impossibile da raccontare, e proprio per questo incredibilmente tangibile e reale.

Un gioco di incastri.
“Let’s be scared together.”

Pachinko è un prodotto riuscito non solo in virtù della storia e delle brillanti performance dell’intero cast: ha dalla sua una scrittura che rasenta la perfezione e una costruzione degli episodi tale da renderlo quasi un unicum nel panorama seriale odierno (soprattutto quello delle piattaforme). Qualsiasi piccolo dettaglio a cui si fa riferimento negli episodi viene accuratamente riposizionato sulla scacchiera degli eventi: è così che conosciamo Kyunghee, la sorella acquisita di Sunja, in punto di morte – prima ancora di incontrarla sullo schermo da giovane; è così che Sunja anziana – parlando a Solomon – fa il primo riferimento a suo marito Isak, in presenza di un altro pastore. Questo insieme di rimandi caratterizza una narrazione che si fonda su incastri perfetti, facendo sì che con una sola stagione Pachinko riesca a creare nello spettatore un’affezione tale che poche serie TV, al momento, possono vantare.

Pachinko - Dalla parola scritta al medium televisivoNell’insieme di dettagli ricorrenti che rendono ogni episodio un piccolo gioiellino, uno dei rimandi più significativi ed emblematici – frutto di una sequenza di ripresa dalla delicatezza straordinaria – è quello del riso bianco: il riso che la madre di Sunja serve ai novelli sposi, lo stesso che la sorella acquisita cucina con amore e cura per il primo pasto insieme; il riso che simboleggia il dolore enorme nel lasciare andare una figlia, senza avere la certezza che mai, nella vita, la si potrà vedere ancora (“…perhaps the taste of it, will swallow some of your sorrow as well”). La serie dimostra la sua capacità di creare scene iconiche in numerose occasioni, ad esempio nel modo in cui utilizza la luce nella scena del matrimonio. È un fascio delicato ma potente, che investe il volto della madre di Sunja: racchiude in sé la speranza salvifica e il dolore incommensurabile, le ombre che qualsiasi fascio di luce (la speranza di una nuova vita) porta con sé, confezionando un frammento indimenticabile anche nella resa scenica.

Pachinko è espressione del fatto che, nella miriade di prodotti proposti dalle attuali piattaforme streaming, la qualità e la fine narrazione non sono solo un miraggio ma una realtà concreta. Pachinko è una storia di cadute e di determinazione, scritta in modo magistrale e girata con una fortissima consapevolezza delle potenzialità del mezzo seriale: in poche parole, una serie assolutamente da non perdere.

Note:
* In “Brevemente risplendiamo sulla terra” di Ocean Vuong (in originale, “On Earth we’re briefly Gorgeous”) il tema del linguaggio viene declinato in modo simile a quanto vediamo nella serie: cosa significa vivere in un paese diverso dal proprio, abituarsi ad usi comuni e conservare i propri, e cosa significa non riuscire mai a comunicare con il proprio io interiore? Nella scena in cui Sunja chiede al figlio aiuto per tradurre quanto gli viene detto, è impossibile non riscontrare gli elementi in comune con il libro appena citato.

* In un dialogo ricco di significati tra Solomon e il padre, nel corso dell’ottavo episodio, balza subito all’occhio un bellissimo dettaglio. I due parlano tra loro in giapponese, eppure quando menzionano le figure della famiglia, lo fanno utilizzando i termini coreani (“Appa”, papà, “Halmeoni”, nonna), invece che il loro corrispettivo giapponese.

 

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