Ogni volta che una serie finisce per sempre si ha una sensazione di vuoto che ci assale: come possiamo realizzare di non passare più del tempo con quei personaggi, con quelle storie? Ci sono poi show che rendono questo distacco ancora più traumatico e tragico, sono quelli in cui i personaggi sono scritti così bene da poter essere considerati quasi come degli amici che si frequentano ogni settimana: è l’utopia inseguita da chiunque scriva serie TV, far sì che gli spettatori non possano fare a meno di rimanere incollati allo schermo settimana dopo settimana, facendo così anche la gioia dei network. Negli ultimi anni, a partire da The Good Wife e proseguendo con The Good Fight, pochi sono riusciti a creare questo legame con i personaggi come i coniugi King.
Partire dai personaggi è forse il modo migliore per parlare di quest’ultima stagione di The Good Fight, ma anche della serie nel suo complesso e di come, sebbene non abbia mai raggiunto numeri da capogiro e sia rimasta sempre nella sua nicchia di pubblico, lo show non sia mai stato messo in discussione, tanto che gli autori hanno sempre avuto carta bianca nel trattare i temi a loro cari. L’universo narrativo creato dai King giunge dunque a una seconda conclusione dopo essere stato riportato alla luce nel 2017 con questo spin-off: è “The End of Everything”, come da titolo dell’ultimo episodio della stagione in esame, in quanto ogni personaggio vede il compimento del proprio percorso di caratterizzazione, sia quelli che sono stati impiantati dalla serie madre, sia quelli che sono stati creati ex novo per lo show. Una conclusione che però non ha il sapore di una fine definitiva: si spera infatti che il franchise possa trovare una vita ulteriore in qualche altro spin-off, magari concentrandosi su altri personaggi o semplicemente cambiando tipologia di storie raccontate – di possibilità narrative i King ne hanno create a bizzeffe nel corso degli anni. Quel che è certo è che difficilmente rivedremo il personaggio che più di tutti è stato centrale in The Good Fight, Diane Lockhart: sembra davvero essere arrivata la fine del percorso narrativo pensato per lei dagli autori.
Era proprio Diane ad aprire lo spin-off con il primo piano sulla faccia attonita di Christine Baranski mentre assisteva al discorso di insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, un evento storico che è anche stato uno dei trampolini narrativi per i casi raccontati nella serie e, ancora di più, che ha influito sulla psicologia e sulla vita stessa della protagonista. La donna, infatti, da democratica progressista e grande sostenitrice dei diritti delle donne e delle minoranze, ha letteralmente ricevuto un duro colpo da questa estremizzazione e radicalizzazione del Partito Repubblicano, spostatosi sempre più verso destra e con un elettorato sempre più imprevedibile e pericoloso. Il colpo ricevuto è stato emotivo, senz’altro, ma ha anche soprattutto avuto effetti negativi sulla sua salute mentale e fisica, tanto da spingerla a rifugiarsi spesso in soluzioni estreme come per esempio il microdosing.
Anche in questa stagione la donna cerca rifugio dal caos che è diventato il mondo intorno a lei e lo trova nella “terapia” del dottor Bettencourt – un tenero John Slattery (Mad Men) – con il quale inoltre cuce un rapporto molto intimo: questo escapismo è la conseguenza di una sorta di esasperazione, un modo per fuggire da una terribile realtà in cui le strade sono piene di gruppi armati di suprematisti bianchi, per andare in ufficio bisogna passare attraverso folle inferocite e la Corte Suprema decide improvvisamente di annullare la Roe v. Wade, una delle storiche sentenze che garantiscono il diritto all’aborto. L’illusione di poter cambiare le cose diventa vana e l’unica soluzione per stare meglio è allontanarsi da tutto, evadere in un prato fiorito nel quale poter vivere in pace e armonia: si spiega così il motivo per cui nel finale Diane si spinga a desiderare persino di lasciare la professione legale, che è stata praticamente tutta la sua vita, ma che è a suo parere una delle cause del suo malessere. Il senso ultimo del suo percorso, ma anche di tutta la serie che non per niente si chiama The Good Fight (tradotto “la giusta battaglia”, come a voler dire di essere “dalla parte giusta”), è esplicitato dal dialogo che ha con Liz che le ricorda il vero motivo per il quale fanno quello che fanno e ripercorre i nomi di tutte le persone la cui vita è stata influenzata in positivo dal loro lavoro.
Non si tratta però solo del fil rouge che guida le scelte e l’interiorità di Diane, ma del tema principale portato avanti in tutta quest’ultima stagione. I personaggi di The Good Fight, infatti, sono alla ricerca di una speranza in un mondo assurdo e privo di senso: questa speranza può essere unirsi ad un gruppo di resistenza che con grandi mezzi riesce a proteggere le minoranze dalle ingiustizie come per Jay, trovare inaspettatamente un marito nel proprio istruttore di Krav Maga come per Marissa, o in modo ancora più incredibile che un miliardario scelga di comprarsi improvvisamente un partito e un noto canale televisivo e cambiare le regole del gioco. Sono sempre e comunque soluzioni di fantapolitica che lo show si permette di mettere in campo, ben consapevole della loro valenza simbolica e irrealistica, come tra l’altro ha sempre fatto. I coniugi King sono dei maestri nel giocare con l’assurdo e il grottesco al fine di lanciare dei messaggi, portare a galla tematiche a loro care o anche solo per mettere i loro personaggi di fronte a scelte difficili. La loro visione degli Stati Uniti d’America e il loro schieramento politico e ideologico sono palesi e ben noti, e non sono minimamente interessati a nasconderli nello show; quello che vogliono fare è piuttosto mettere in campo una discussione che porti ad un confronto tra le persone che la pensano come loro. In questo sono sempre stati dei maestri e la serie è il mezzo perfetto per sperimentare dal punto di vista narrativo e fantasticare su improbabili futuri o universi alternativi – come per esempio all’inizio della quarta stagione dove Diane si ritrovava in una realtà in cui Hillary Clinton era stata eletta Presidente.
Si parlava di quanto i personaggi siano un elemento cardine di The Good Fight e questo è evidente se si pensa alla storia dello show lungo queste sei stagioni: per esempio all’inizio le due protagoniste erano indubbiamente Diane e Maia (Rose Leslie), ma quest’ultima se ne andò dalla serie alla fine della terza stagione. Non è l’unico personaggio nel cast principale ad abbandonare anzitempo la produzione: abbiamo infatti assistito anche agli “addii” di Lucca (Cush Jumbo) e Adrian Boseman (Delroy Lindo), ma la capacità che hanno avuto gli autori nel saperli rimpiazzare con delle personalità altrettanto ben scritte e ben integrate nel cast è stata eccezionale. Emblematici in tal senso sono i personaggi di Carmen Moyo (Charmaine Bingwa) e Ri’Chard (Andre Braugher): la prima è stata introdotta già la scorsa stagione e rappresenta la giovane nuova associata che si dimostra fenomenale per intuizioni e capacità, tanto da diventare in breve tempo l’astro nascente dello studio – anche grazie alla gestione di clienti “scomodi” come Oscar Rivi e Ben-Baruch –, mentre il secondo è una new entry freschissima che ruba la scena sin dalla sua prima apparizione. Il nuovo socio nominale dello studio comincia come la perfetta nemesi di Liz ma lentamente si integra nelle dinamiche quasi “familiari” dello show, con una crescita che tocca il suo culmine nel bellissimo episodio “The End of a Saturday” nel quale i personaggi devono aiutarlo a salvare la vita del nipote. Ri’chard ha anche un ruolo di primo piano nel plasmare il futuro di Liz, in quanto è con il suo aiuto prezioso che la donna riesce a svincolarsi dalla STR Laurie e a costruire un futuro radioso per lo studio: il loro rapporto – da nemici a compagni d’armi – è stato gestito benissimo, anche grazie ai riferimenti all’eredità del padre Carl e a come il personaggio interpretato da Audra McDonald ancora ne soffra terribilmente.
The Good Fight è anche una serie molto irriverente e spregiudicata, capace di piegare a suo piacere la narrazione e le regole della televisione: lo ha fatto con l’introduzione dei corti animati che andavano a spiegare alcuni argomenti giuridici, lo ha fatto con il già citato episodio “what if…”, e nella premiere della quinta stagione – la prima post-covid – lo ha fatto con un episodio strutturato come un grande “previously on…”. Una delle caratteristiche più divertenti dello show è però il modo in cui ha scelto di intitolare i suoi episodi: se la prima stagione, infatti, è molto tradizionale da questo punto di vista, le puntate della seconda sono intitolate con il numero di giorni passati sotto la presidenza Trump; la terza annata cita i titoli degli episodi di Friends intitolando ogni puntata con “The one…” che in italiano si può tradurre come “Quella in cui…”. La quarta stagione comincia tutti i suoi titoli con “The Gang…” mentre la quinta – la più geniale probabilmente – collega i titoli di tutti gli episodi per formare una storia: “Once there was a court…”, “And the court had a clerk…”, “And the clerk had a firm…” e così via. Questa sesta annata, invece, richiama, come già accennato, il concetto di chiusura cominciando ogni episodio con “The End of…”.
Ci sarebbe ancora tantissimo da dire su uno degli show più intelligenti e meglio scritti degli ultimi anni, sicuramente il miglior legal drama in circolazione. Per chiudere il cerchio, si può ben dire che The Good Fight lascia un vuoto non solo negli spettatori ma nella televisione contemporanea tutta, in cui, per come si sta evolvendo, difficilmente vedremo presto un altro prodotto di questo tipo, tanto audace quanto divertente. Come ci si potrà dimenticare della serie che meglio di tutti ha saputo osservare e dipingere tutte le contraddizioni della società americana – al punto da prevedere parecchie cose che poi si sono effettivamente verificate – fino al punto di assumere una funzione quasi pedagogica in alcuni suoi passaggi – i già citati corti animati per esempio. Quest’ultima stagione conclude perfettamente questo secondo prodotto del Kingverse (escludendo Evil che è un prodotto a parte) portandoci a desiderare nuove serie ambientate nelle folli aule di tribunale di Chicago – o magari di una nuova città.
Voto Stagione: 9
Voto Serie: 9
Concordo, una delle serie più intelligenti e geniali degli ultimi tempi! La chicca della sigla ricreata è stata meravigliosa!