La prima stagione della serie HBO dedicata a uno degli avvocati più famosi della storia seriale televisiva fu un evento molto riuscito: Perry Mason dimostrò di avere tutte le carte in tavola per presentare un prodotto diverso da quello che ci si sarebbe aspettato, rendendo evidente che non si trattasse di un semplice remake del personaggio interpretato da Raymond Burr.
La serie HBO è tornata con una seconda stagione. Ormai diventato in tutto e per tutto un avvocato, Perry si ritrova a dover vivere delle conseguenze delle proprie azioni. Nonostante il finale della precedente annata avesse gettato le basi per un nuovo inizio potenzialmente basato sulla trama verticale, la nuova stagione riprende con una situazione ancor differente: Perry ha deciso di non accettare casi di natura penale ma solo civile, Paul Drake è praticamente disoccupato, e lo studio legale non se la passa proprio benissimo. Qualcosa non ha funzionato e a spiegare la difficile situazione allo spettatore sarà la scoperta che la prima vittoria di Perry nella scorsa stagione si sia in realtà risolta tragicamente con il suicidio di Emily, incapace di arrendersi alla morte del figlio. Il caso che ha portato Perry Mason a diventare un avvocato torna a tormentare il protagonista della serie e lo conduce ancora una volta a dubitare della giustizia e della possibilità di amministrarla.
Se c’è un tema che domina questa stagione, infatti, è proprio il dubbio su in che cosa consista la giustizia in un sistema come quello americano, in una Los Angeles degli anni ’30 dominata in tutto e per tutto da grossi magnati del petrolio. Lo scontro proposto nella nuova annata, infatti, è da subito titanico: da un lato ci sono due ragazzi d’origine messicana, cittadini americani ma trattati come altro proprio per la propria povertà e la vita che si ritrovano a dover affrontare; dall’altra il ricco figlio di papà, incapace di gestire i propri affari ma che perde il controllo (e la vita) solamente quando va a pestare i piedi e gente più grande di lui. Al centro ci sono interessi economici e pregiudizi razziali, in un cocktail pericolosissimo in cui è estremamente facile scottarsi. Lo sanno tutti i protagonisti, principali e secondari, della storia, perché ciascuno di loro si ritrova vittima o potenziale vittima di ricatti e manipolazioni: Della e Hamilton indeboliti dalla loro doppia vita, Paul e Pete alla ricerca di un equilibrio tra famiglia e lavoro, i Gallardo condannati ancor prima di scoprire la verità. Sono tutte pedine di persone più potenti di loro e di una società così saldamente prestabilita. Perry Mason è al centro di tutto ciò, lui stesso vulnerabile e vittima di un sistema che, come lui stesso si ritrova ad ammettere, è pura illusione, costruito per schiacciare chiunque non corrisponda ad un impossibile e ideale schema prestabilito (da altri).
La conclusione del procedimento legale non potrà che rispondere proprio a questa generale tendenza: nessuno ne esce davvero vincitore, nonostante le dichiarazioni d’ufficio, perché non c’è modo di vincere a questo gioco: il ragazzo che ha commesso l’omicidio è effettivamente vittima del sistema che rema contro di lui, ma allo stesso tempo è anche artefice delle proprie sorti (Mateo è effettivamente colpevole d’omicidio). Anche incerto è ciò che accadrà a quella che è la vera villain della stagione, quella Camilla Nygaard (un’ottima Hope Davis) che ha mosso tutti i fili da dietro le quinte e la cui caduta – ancora tutta da vedersi – potrà iniziare solo quando porta all’esasperazione Melville Phipps, il suo braccio destro. Che ne sarà di lei è ancora presto per dirlo, così come dell’altro magnate Lydell McCutcheon, rifugiato in Giappone.
Da questo punto di vista, la seconda stagione di Perry Mason funziona molto meglio della prima per maggiore coesione e per una storia più compatta e per questo più riuscita. Messa alle spalle la storyline pseudo-religiosa che aveva lasciato poca sostanza, la serie è più efficace nel suo parlare di corruzione e sotterfugi, profondamente intessuti nel rapporto di forza tra i vari personaggi. Il tradimento (temporaneo) di Pete, le difficoltà umane di Paul, le fughe d’amore di Della, e l’incapacità di Perry di contenere la propria costante rabbia esplodono in momenti differenti incastrandosi perfettamente nell’equilibrio narrativo della serie e facendo di ogni episodio un tassello complesso e completo nel descrivere questi imperfetti esseri umani. La scrittura si mantiene d’ottimo livello anche in questa stagione e ci permette di capire qualcosa di più di ciascuno di loro, sia quelli già noti che quelli il cui ruolo s’espande maggiormente (si veda Hamilton o Clara).
La vera forza di questa serie rimane soprattutto il tono della narrazione che si sposa alla perfezione con l’ambientazione — una sporca e disumana Los Angeles negli anni intensi e cupi successivi al crack finanziario del 1929. Seguendo molti dei dettami del genere noir, incluso un’avvolgente base musicale, la serie procede con calma e ci mostra tutto lo sporco e la violenza della società dominata dal potere e dai soldi. Nell’assolata e calda Los Angeles, ogni angolo della città diventa luogo di ingiustizia e sfoggio di potere: dalla piscina di una ricca insegnante di pianoforte allo stadio di baseball, dall’ippodromo ai casinò in mezzo al mare. Non è però un festival della tristezza e dello squallore, perché in questo mondo profondamente avverso ci sono piccole ombre di speranza. Della e Hamilton possono vivere la loro menzogna consapevoli di non essere svelati per quello che sono e che non possono essere, Rafa torna libero e ritorna alla sua arte, Paul può mettersi alle spalle il tradimento che avverte d’aver commesso contro la sua gente, andando a lavorare per il suo quartiere. Certo, Perry Mason deve rinunciare alla sua libertà e scontare quattro mesi di prigione; ma al ritorno pare ci sarà ad attenderlo Ms. Aimes e la prospettiva di un viaggio a Yosemite, oltre alla consapevolezza di essersi sacrificato per il bene dei suoi clienti, in quel desiderio finale di lotta contro l’ingiustizia che lo rende un personaggio più consapevole di sé.
Non c’è quindi nessun calo in Perry Mason: la serie con protagonista l’eccellente Matthew Rhys conferma tutto il buono che c’era nella prima annata e anzi consolida la propria scrittura in una stagione coinvolgente e profonda.
Voto: 8½