Se c’è una serie che ha fatto davvero suo il concetto di “ibrido” è proprio Barry: la comedy creata da Alec Berg e Bill Hader per HBO nel 2018, infatti, sin dalla sua prima stagione ha saputo giostrarsi abilmente tra un formato da dramedy – episodi da trenta minuti – con oscillazioni improvvise tra il genere della comedy irriverente e quello del drama più tragico, e lo ha saputo fare molto meglio di altri prodotti. Questa sua dualità è perfettamente espressa dalla natura del suo protagonista: un assassino apparentemente senza scrupoli che vuole cambiare la sua vita frequentando un corso di teatro, un soggetto che ha fatto le fortune della serie e ha regalato alla tv uno degli show più sperimentali e interessanti degli ultimi anni.
Barry fa parte di quella schiera di prodotti che hanno avuto il loro momento di gloria – c’è stato una fase in cui chiunque parlava di Barry – ma che, con il tempo, hanno perso un po’ della loro fama tra il grande pubblico, rimanendo tuttavia sulla bocca degli appassionati e dei più attenti. Uno dei motivi di questo fenomeno è connaturato alle modalità di fruizione di serie televisive del nostro tempo: siamo abituati sempre più a passare rapidamente dal grande titolo del momento al prossimo, con sempre meno tempo di elaborare quello che guardiamo. Un altro motivo, per esempio, è il gap temporale che è intercorso tra le prime due stagioni e le seconde due, un periodo che ha ragionevolmente affievolito l’hype e il chiacchiericcio intorno alla serie, lasciando spazio ad altri titoli nuovi e più freschi – sicuramente anche a prodotti che seguivano la scia di Barry in quanto a stile e a ispirazione.
Le prime due stagioni di Barry sono state di certo quelle che hanno lasciato un segno più indelebile, un po’ perché appunto sono uscite diversi anni fa e un po’ perché sono state una novità inaspettata nel panorama televisivo, uno dei tanti modi innovativi di interpretare un genere in evoluzione come quello della dramedy; in particolare la seconda stagione della serie aveva mostrato un’ulteriore maturazione che non ci si aspettava rispetto alla prima annata, regalando episodi iconici come per esempio il famoso “ronny/lily” e un innalzamento complessivo del livello di scrittura.
Bill Hader è stato fin dall’inizio coinvolto nel processo creativo della serie, cosa che ha facilitato l’interpretazione di un personaggio che sa essere magnetico sin dalla sua prima apparizione: Barry Berkman è il fulcro dello show e la sua psicologia e la sua evoluzione sono stati il filo conduttore che hanno portato lo show a bordo di un’adrenalinica giostra narrativa che trova una degna conclusione con questa quarta annata. Se nella prima stagione, infatti, Barry cominciava il suo viaggio alla ricerca di una nuova vita esplorando la propria intimità e le proprie emozioni sfruttando il mezzo del teatro e i consigli di Gene Cousineau, con l’omicidio della detective Moss cambia tutto: la seconda stagione ha riportato il protagonista a fare i conti con i traumi del passato e con il proprio lato oscuro, che riabbraccia definitivamente nell’episodio finale. La terza è stata caratterizzata da una serie di tentativi per Barry di fare ammenda dei propri errori, la ricerca, quindi, della forza di perdonare e di ricevere perdono. Il cliffhanger nel finale, tuttavia, rimetteva tutto in discussione, non lasciando presagire molto dello stato in cui avremmo ritrovato il protagonista in questa quarta annata.
All’inizio di “yikes”, infatti, Barry è un uomo distrutto e sopraffatto dalle proprie scelte sbagliate e da un passato dal quale non può più cercare di fuggire. È un topo in trappola che però accetta la sua condizione perché in qualche modo sa di meritarsela; l’unico suo rimpianto è l’aver abbandonato Sally e il fatto di sapere che la donna ora conosce la sua vera natura, il suo vero io, una verità che era quasi sempre riuscito a nascondere. Nemmeno il perdono di Fuches e il loro riavvicinamento porta all’uomo un po’ di pace: Barry è prigioniero più di se stesso che del carcere in cui si trova ed è pressoché rassegnato al fatto che non c’è altro posto dove dovrebbe essere. Fin dall’inizio dello show l’unico suo obiettivo era quello di lasciarsi alle spalle la sua guerra personale, i suoi traumi e il lato della sua personalità più oscuro; grazie a Sally e a Cousineau ci stava riuscendo, ma in fin dei conti quello che la serie e Bill Hader ci hanno fatto ben capire è che questa aspirazione, questa necessità per Barry di essere considerato “l’eroe” della storia, una brava persona in sostanza, era solo, appunto, una storia che raccontava a se stesso.
La seconda parte della stagione – quella che va dal quarto episodio all’ottavo – contribuisce a rendere evidente questo aspetto: la vita che Barry costruisce con Sally e con il figlio John viene mostrata sin da subito con delle immagini oniriche e artificiose – tanto che molti spettatori si sono chiesti ad un certo punto se non fosse tutto ambientato nella testa di Barry. Hader dipinge volontariamente la nuova casa e la nuova famiglia di Barry come una foto sbiadita, fatta di paesaggi spogli e relazioni non genuine: è un’immagine fragile, che sembra possa essere spazzata via da un soffio di vento o – come effettivamente accade – da una leggerezza di Sally che fa arrabbiare le persone sbagliate. La vita che il protagonista ha sempre sognato, insomma, non è un futuro possibile per Barry, non esiste un lieto fine e non esiste un vero perdono per quello che ha commesso.
Il fatto che per l’uomo sia importante il modo in cui appare agli occhi degli altri – più che a se stesso – è dimostrato dal fatto che non ci pensa due volte a tornare a Los Angeles a chiudere la bocca a Gene non appena scopre che il personaggio di Henry Winkler è sul punto di raccontare la sua versione degli eventi e addirittura farci un film. Quel film non deve uscire perché racconterebbe la sua storia come se lui fosse l’antagonista, un uomo spietato senza sentimenti e senza scrupoli, un ex marine che è diventato un cop killer e nient’altro.
Il culmine di questo percorso ci viene proposto in modo geniale da Hader con le ultime scene della serie che vedono protagonista il figlio di Barry, John, ormai cresciuto, che guarda il film dozzinale che è stato prodotto e ispirato alla vicenda del padre: il film trasforma Barry nell’eroe della situazione e Gene nel cattivo manipolatore che si è approfittato di un reduce psicologicamente fragile. È il viaggio dell’eroe che Barry ha sempre sognato ed il modo in cui avrebbe voluto essere ricordato dal figlio, è la storia di redenzione di cui era andato alla ricerca per quattro stagioni e che ha trovato il suo compimento nella macchina che fabbrica storie per eccellenza, Hollywood. Il cerchio si chiude se si pensa al collegamento tra il cinema e il teatro, quello che era stato per Barry il mezzo ultimo per poter essere una persona diversa, una persona nuova. Cos’è in fondo la recitazione se non fare finta di essere qualcun altro seppur per poco tempo?
Se nelle scorse stagioni il dramma del protagonista era perfettamente bilanciato da una comicità situazionale che faceva dell’assurdo e del grottesco il suo punto di forza, questa quarta stagione, sebbene abbia anch’essa momenti comici brillanti e dialoghi irriverenti – soprattutto nella storyline che riguarda Noho Hank – ha virato in modo deciso verso la componente drammatica, sfociando a tratti nel thriller psicologico. La scena dell’aggressione a Sally e John in casa è una delle più spaventose della serie – e la regia di Hader, che dirige tutti gli episodi della stagione, è eccezionale – ma anche quella nel garage delle torture di Jim Moss non scherza. Questo incupimento nella narrazione segue il percorso dei protagonisti e trasforma uno show che giocava spesso sul contrasto tra la divertente e impacciata assurdità di un killer che voleva fare l’attore con la spietatezza e l’efferatezza degli omicidi, in un crescendo di tensione e angoscia che finisce definitivamente solo con la morte del protagonista, come se fosse lo stesso Barry a portarsi dietro una cappa di morte e distruzione.
Intorno a Barry anche gli altri personaggi hanno subito delle trasformazioni e dei cambiamenti radicali. Sally, per esempio, sceglie di fuggire con l’uomo nonostante abbia scoperto la sua vera natura di assassino, per poi vedersi come svuotata e lontana dall’essere felice con la sua nuova famiglia. Sappiamo bene come anche il personaggio interpretato da Sarah Goldberg è stato spesso dipinto come una persona piena di difetti e che sa essere tanto crudele quanto apparentemente gentile, oltre che averci mostrato come sia stata costretta a uccidere un uomo: in quest’ultima stagione il suo ruolo si configura come quello di vittima, una persona che si trova in una prigione dalla quale pensa di non avere scampo rappresentata da una vita lontana da quella che desiderava e con un figlio che probabilmente nemmeno voleva. Il finale le dona una serenità insperata e la possibilità di realizzarsi professionalmente nel teatro, l’unica cosa che ha sempre voluto.
Anche il triangolo relazionale Barry-Fuches-Noho Hank ha un ruolo di rilievo nella stagione. Il mentore/padre putativo di Barry, per esempio, conserva per il suo discepolo un affetto mai sopito, nonostante la continua guerra che hanno intrattenuto nel corso delle stagioni; questo legame di amore-odio trova compimento nella scelta finale di lasciar andare Barry e la sua famiglia, una sorta di riscatto per tutto il male che gli ha causato. Se ci si pensa, in fondo, il primo manipolatore di Barry è stato proprio Fuches, che lo ha sfruttato come killer e lo ha privato della possibilità di curarsi dal suo trauma.
Il personaggio di Noho Hank, invece, è quello che ancora più degli altri incarna lo spirito tragicomico della serie: dalla triste fine del rapporto con Cristobal alle scene più divertenti a cui assistiamo in questa stagione – solo per citarne alcune geniali, quando spara il razzo verso il rifugio di Fuches e non può spararne un altro perché aveva chiesto di stare attenti al budget, oppure quando deve selezionare i sicari per uccidere Fuches e tornano indietro solo le loro teste – è impossibile non empatizzare con l’interpretazione superlativa di Anthony Carrigan e con uno dei personaggi più iconici dello show. Il suo finale mano nella mano con la statua che ha fatto costruire in onore dell’amore della sua vita è una scena potente e un ottimo modo per concludere la sua storia.
In definitiva Barry si conclude con una stagione che, in linea con le precedenti, ha saputo unire la brillantezza di scrittura con una regia superlativa, ma lo ha fatto in questo caso con una tensione drammatica ancora più marcata che nelle altre annate della serie. Il corso dello show ha visto qualche leggero calo di ritmo nella terza stagione e in qualche momento di passaggio dell’inizio di questa quarta, ma in generale il livello di televisione espresso da Barry è altissimo. Lo show, nella sua interezza, è un piccolo gioiello capace di stupire, divertire ed emozionare.
L’unico torto che ci hanno fatto gli autori è quello di non averci fatto vedere l’annunciato film della Warner con Daniel Day-Lewis e Mark Whalberg, ma a fronte di tutto il resto possiamo decisamente perdonarli.
Voto Stagione: 8
Voto Serie: 8 ½